In EvidenzaTeatro e DanzaI clacchisti: breve storia del pubblico mercenario

Giada Oliva12 Giugno 2022
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L’applauso è per sua natura un gesto fragoroso e improvviso, in quanto ha origine dal latino “plodere” (“esplodere”). Oggi però non scandalizza l’esistenza di applausi comandati, o chiamati, soprattutto in un contesto televisivo in cui è facile dubitare perfino della genuinità dell’aria che si respira. Non è un caso trovare spesso legati a doppio filo applauso, politica, media e pubblico: a far da collante è il significato che nel tempo ha assunto il gesto dell’applaudire e cioè quello di esprimere consenso, un bene particolarmente prezioso nella deformante “società dello spettacolo”.

Tuttavia, la televisione non è artefice di alcuna novità, ma ha semplicemente continuato a far uso di una pratica teatrale che ha le sue origini nell’antica Roma. È qui che nasce la figura del clacchista, colui che dietro compenso economico manifesta consenso o dissenso col fine di determinare la fortuna o la sfortuna degli artisti. Negli spettacoli dell’urbs, affinché il servizio fosse realizzato con cura, veniva designato un capoclaque per guidare il gruppo dei clacchisti, dare il segnale di inizio dell’applauso e gestire i tempi delle reazioni.

In Grecia, quando la catarsi dal male diviene solo figurativa, l’applauso acquista il senso che ancora oggi conserva, con la differenza che insieme al battere delle mani si battono anche i piedi. Infatti, assistere composti a teatro, fare silenzio e limitarsi ad applaudire è un comportamento introdotto dal teatro borghese. Fino a pochi secoli fa, a teatro si partecipava in modo rumoroso: nel Seicento, fischiare, pestare i piedi, battere le mani, tossire, soffiarsi il naso e chiacchierare erano azioni usuali, così come gettare ortaggi sul palco in segno di protesta.

Già durante l’Impero Romano l’applauso acquista un prezzo, perdendo al contempo la propria spontaneità, e divenendo un gesto obbligato che si deve all’Imperatore. La macchina del consenso era a tal punto organizzata che gli applausi si dividevano in “bombos” (“bombi”, ovvero ronzii che facevano da tappeto sonoro di base), “imbrices” (“tegole”, vale a dire applausi con le mani incavate) e “textas” (“mattoni”, ovvero applausi con le mani piatte che venivano battute fragorosamente come se fossero, appunto, due mattoni). A seconda dei casi, a questi applausi si poteva unire il movimento delle toghe e lo sbandieramento di fazzoletti multicolore. Si racconta che Nerone, figura in cui spettacolo e politica raggiungono un’inquietante simbiosi, per il suo debutto come cantante a Napoli ingaggiò una claque di 5000 napoletani, i quali – divisi in squadre – dovettero allenarsi per tempo e imparare i tipi fondamentali dell’applauso.

La parola “clacchista” deriva dal francese “claquer”, in quanto nell’Ottocento anche in Italia hanno ampia diffusione i Cafè-Chantant, locali in cui si consumano bevande mentre si assiste agli spettacoli e grazie ai quali la figura del clacchista torna in auge per via di dive e comici desiderosi di appagare la propria vanità. Fortunato Mattiozzi era, all’inizio del Novecento, un capoclaque romano noto e temuto; all’ennesimo problema decise di affiggere questo listino con i prezzi dei servizi offerti dai suoi collaboratori:

 

«Applauso di sortita: ai maschi L. 25, sconto alle Signore: L. 15
Voci efficacissime di “Bene!” e “Bravo!”, da pagarsi a pronti, L. 5 (cadauno componente della claque)
Applauso cordiale: L.10
Applauso insistente e caloroso: L. 15
Bis quasi spontaneo: L. 25
Bis a qualunque costo: L. 50
Chiamate alla ribalta (cadauna): L. 5
Chiamate con nome: L. 1,50
Fanatismo: prezzi da convenirsi»

 

Il lavoro del clacchista è giunto (quasi) fino ai nostri giorni: il potere e l’alta remunerazione del capoclaque sono rimasti, di fatto, invariati nel tempo. La storia del teatro è ricca, però, anche di esempi di artisti che hanno rifiutato il compiacimento, non rincorrendo il consenso. In questo senso, possiamo citare il compositore Claude Debussy, che amava il silenzio dopo le sue performance, dato che a parere suo l’applauso uccideva la sublime bellezza dell’esecuzione.

Giada Oliva

Romana, classe '85, laureata al Dams in Storia del teatro italiano. Ha studiato per diversi anni teatro e danza contemporanea. Particolarmente curiosa, ama essere una cacciatrice di esperienze e di nuovi punti di vista.