Con lo sbarco degli Alleati in Sicilia e la caduta del regime fascista, il decentramento delle opere d’arte che precedentemente erano state portate nei ricoveri di campagna dovette subire delle modifiche poiché le opere non erano più al sicuro. Tra l’ottobre e il novembre del 1943 a Roma sussisteva un gravissimo vuoto istituzionale in quanto, dopo la costituzione della Repubblica Sociale, tutti i ministeri e gli organi di governo furono trasferiti al Nord; in particolare il Ministero dell’Educazione Nazionale, a cui faceva capo l’amministrazione delle Belle Arti, fu trasferito a Padova. Alla metà di ottobre il ministro Carlo Biggini, d’accordo con il Ministero degli Esteri e l’Ambasciata tedesca, dispose che tutte le opere d’arte dell’Italia centrale fossero inviate prima possibile nelle regioni del Nord Italia. Ai funzionari e agli impiegati dell’amministrazione delle Belle Arti, diretti da Marino Lazzari, fu chiaro che ciò significava consegnare le opere nelle mani dei tedeschi, in quanto proprio il loro trasporto avrebbe costituito l’occasione per organizzare le esportazioni illecite. Per questa ragione, facendo appello alla propria coscienza di intellettuali e a principi di responsabilità etica e civile, questi funzionari non poterono che disobbedire all’autorità politica. I protagonisti di queste vicende furono molteplici: Emilio Lavagnino, Pasquale Rotondi, Italo Vannutelli, Giulio Carlo Argan, Aldo De Rinaldis, Pietro Romanelli, Guglielmo De Angelis d’Ossat e Palma Bucarelli, i quali tentarono in ogni modo di preservare il patrimonio artistico italiano.
Stabilendo che nulla si sarebbe trasferito al nord, si decise di portare al più presto le opere in Vaticano, secondo un accordo raggiunto il 12 novembre. Dal diario dello storico dell’arte Emilio Lavagnino scritto tra 1943 e 1944 e da una sua relazione ufficiale per il ministero – quest’ultima inedita fino al 2010 (R. Morselli, Fuori dalla Guerra) – si apprendono i viaggi per il Lazio che lui fece insieme a Vannutelli e pochi altri per portare a Roma le opere da mettere in salvo dentro le mura vaticane. Fu una vera corsa contro il tempo, affrontata con un grande coraggio e senso del dovere.
Il diario di Lavagnino racconta nel dettaglio ciò che accadde durante quei viaggi che lui chiama “gite”, dai ritardi del curioso Tenente tedesco Peter Scheibert che Lavagnino descrive come «un giovanottello in borghese, sorridente», il quale sembra piuttosto cogliere l’occasione per visitare le bellezze laziali, agli incidenti intercorsi durante il trasporto delle opere, in cui sia Lavagnino stesso che Vannutelli rischiarono seriamente di farsi male (durante buona parte del racconto si legge che quest’ultimo fu costretto a camminare con una scarpa e una pantofola a causa di una cassa che gli cadde su un piede), alla difficoltà di reperire il carburante per i camion che trovarono solo alla “borsa nera”, alle intere giornate che questi uomini passarono senza neanche mangiare, al freddo che patirono viaggiando su camion aperti e ai rischi dei bombardamenti ai quali più volte assistettero. Oltre la vicenda del recupero dei beni, interessante è certamente apprendere la desolazione di quei paesi del Lazio durante la guerra e la difficoltà di vivere in un periodo del genere, in cui risultava complicato anche reperire del cibo.
Il diario inizia il 10 dicembre 1943 quando, in seguito alla caduta del Soprintendente di Roma De Rinaldis, il quale si era rotto un braccio, Lavagnino prese il suo posto. Progettò quindi una serie di viaggi scegliendo quei paesi che potevano essere maggiormente a rischio di bombardamenti e razzie. Sperando di poter estendere la sua nobile missione all’Umbria e all’Abruzzo, i viaggi si conclusero a Tuscania; sarebbe voluto andare a Monte San Biagio per mettere in salvo il polittico di Cristoforo Scacco ma ormai la zona era già in mano agli Alleati. Prima di occuparsi dei ricoveri laziali, i primi due viaggi compiuti tra dicembre e gennaio furono effettuati per recuperare quei beni provenienti non solo da Roma ma anche da Milano e Venezia, conservati nei rifugi scelti da Pasquale Rotondi nelle Marche, a Sassocorvaro, Carpegna e Urbino. Intanto il 9 gennaio il Ministro Biggini – sicuramente venuto al corrente del primo viaggio – aveva dato disposizione che tutte le opere d’arte ricoverate nei depositi di campagna non fossero rimosse. Lavagnino non ebbe intenzione di obbedire; a testimonianza di ciò, in data 13 gennaio, con grande convinzione scrisse nel suo diario: «Io sono stato mandato in pensione, ufficialmente sono esautorato ma di questo me ne infischio e vado avanti per la mia strada agendo come mi sembra più onesto e doveroso fare, se c’è della gente disposta ad abdicare a quei diritti che derivano dalla coscienza del dovere da compiere, questa gente a mio modo di vedere agisce in malo modo».
Le casse, una volta arrivate a Roma, venivano aperte e le opere controllate dallo stesso Lavagnino; quelle che si trovavano in perfetto stato di conservazione venivano spedite direttamente in Vaticano da Vannutelli, le altre venivano messe da parte per essere restaurate e mandate in Vaticano in un secondo momento. Lavagnino svolse questo faticoso lavoro da solo. Dopo i primi due viaggi nelle Marche, iniziarono quelli nel Lazio: per prima cosa andarono a Genazzano, a svuotare i depositi nei conventi di S. Pio e di S. Maria. Nel primo vi erano tutte le argenterie, le maioliche e i mobili di Palazzo Venezia e nel secondo «almeno 140 quadri di seconda scelta delle Gallerie di Roma: Borghese, Corsini, Spada, Palazzo Venezia»; solamente quest’ultimo ricovero fu svuotato completamente.

Il 7 febbraio si intraprese il viaggio a Viterbo: lo scopo era riportare a Roma la Pietà e la Flagellazione di Sebastiano del Piombo del Museo Civico (a cui De Rinaldis teneva molto), il dipinto all’epoca creduto di Girolamo da Cremona e invece poi assegnato a Liberale da Verona e la Madonna con il Bambino di Benvenuto di Giovanni della Cattedrale di S. Lorenzo, il polittico del Balletta della chiesa S. Giovanni in Zoccoli e la grande tavola di Neri di Bicci nella chiesa di S. Sisto. Durante questa faticosa giornata di lavoro, Viterbo conobbe un bombardamento, ma nonostante ciò la squadra non si perse d’animo e riuscì a recupere le suddette opere. In questa spedizione insieme a Lavagnino e Vannutelli, fra gli altri, vi era anche Palma Bucarelli che si fermò a Caprarola per scegliere le casse con le opere della Galleria Nazionale d’Arte Moderna da portare in Vaticano.


Il 16 febbraio andarono in ricognizione a Sutri; da questo momento Lavagnino cominciò a visitare paesi e campagne per parlare con vescovi e parroci, a cui comunicò come fare per proteggere le opere d’arte che non avrebbe potuto portare a Roma. «Tutto quanto è arredo necessario al culto anche quando tale arredo non abbia valore intrinseco notevole ma costituisce elemento caratteristico tradizionale della chiesa», dispose Lavagnino, doveva essere messo in un luogo segreto e asciutto, in ambienti sotterranei. Durante la stessa giornata passarono in rassegna Vetralla, Montefiascone, Bagnoregio, Orvieto, Acquapendente e Bolsena. Da Sutri riuscirono a mettere in salvo il Cristo benedicente di scuola romana proveniente dalla Cattedrale dell’Assunta (una delle più antiche repliche dell’icona acheropita del Sancta Sanctorum) e di un dipinto attribuito a Jacopo Zucchi raffigurante Gesù in casa di Lazzaro dalla chiesa dell’Immacolata Concezione, il cui recupero non fu semplice in quanto Lavagnino e l’autista Montenovi impiegarono ben «due ore e mezza a smurare le grappe della cornice di ferro che tiene a posto il cristallo di protezione del dipinto». Dalle rovine di Vetralla, che trovarono del tutto deserta, riuscirono a salvare – togliendola dalla cornice cinquecentesca – la Madonna Advocata che si trovava, e si trova ancora oggi, nel duomo di Sant’Andrea.

Il 29 febbraio Lavagnino, insieme a Mons. Costantini, Presidente della Pontificia Commissione per l’Arte Sacra, si recò a Tivoli. Lo scopo era convincere il Vescovo a dargli il Salvatore per metterlo al sicuro in Vaticano, ma nonostante le loro insistenze egli non cedette alla richiesta. Nella stessa giornata Vannutelli si recò a Genazzano per finire di svuotare il convento di S. Pio in cui erano rimasti i mobili di Palazzo Venezia. Dopo una ricognizione a Rieti, per prendere accordi sulle possibilità del recupero di alcune opere, l’8 marzo Lavagnino partì per Fondi, in cui trovò una situazione disperata dato che tutte le case erano in rovina e non c’era anima viva. Qui dalla chiesa di Santa Maria Assunta, in parte crollata, decise di recuperare la Natività tra San Marciano e San Michele Arcangelo di Giovanni da Gaeta, la Pietà dello stesso artista, la Trinità tra i santi Giacomo e Giovanni di Gabriele da Feltre. Dalla chiesa di S. Pietro, insieme al prof. Giulio Battelli del Vaticano, riuscirono a prelevare due pesanti trittici: la Madonna con il bambino tra i santi Pietro e Paolo di Antoniazzo Romano e l’Annunciazione tra i santi Onorato e Mauro di Cristoforo Scacco, entrambi fissati con grappe di ferro alle pareti della cappella (l’unico ambiente della chiesa miracolosamente intatto). Non avendo le chiavi della cancellata, l’unica cosa che poterono fare era scavalcarla; una volta dentro, tolsero i trittici dalle pareti con i pochi strumenti a disposizione e li fecero passare sopra la cancellata di punte. L’operazione durò circa tre ore. Dalla stessa chiesa prelevarono una tela con la Madonna del rosario, copia da Sebastiano Conca, un San Girolamo penitente di ambito laziale del XVI secolo e una croce dipinta forse dell’XI secolo.


Il 13 marzo Lavagnino si recò a Rieti, dove le opere più preziose delle chiese erano state depositate presso il Museo Civico: la Madonna del latte, il San Francesco, Sant’Antonio da Padova di Antoniazzo Romano della chiesa di Sant’Antonio al Monte, l’Angelo custode dello Spadarino proveniente dalla chiesa di S. Rufo, una scultura lignea di scuola locale raffigurante la Pietà, un polittico di Luca di Tommè, un’ancona e una tavola di Marcantonio Aquili.

Il 25 marzo Lavagnino e Battelli fecero un sopralluogo a Civita Castellana, Orte e Magliano Sabina e il 30 marzo a Sacrofano, Morlupo, Trevignano e Bracciano. A Morlupo Lavagnino dovette intervenire direttamente sul trittico della cattedrale di San Giovanni Battista per fermare la pittura che si stava staccando; successivamente riuscì a portare a Roma solo la parte centrale con il Salvatore benedicente, che fu poi rubata negli anni Ottanta e mai ritrovata.

Il 16 aprile partirono per Civita Castellana dove presero il San Bernardino e due angeli di San di Pietro, l’Adorazione del bambino di Antoniazzo Romano – che Lavagnino con qualche perplessità diceva del Pastura, entrambe dalla chiesa di S. Pietro – e il Redentore benedicente e la Madonna del rosario e devoti della cattedrale. In tarda mattinata andarono a Magliano Sabina a prelevare dalla cattedrale di S. Liberatore l’Incoronazione della Vergine, l’Annunciazione, la Nascita della Vergine, la Morte del figlio Uliano, attribuite a Rinaldo Iacovetti da Calvi. Poi andarono a Trevignano, dove la loro azione non fu vista di buon occhio dai cittadini e addirittura il parroco dovette leggere la lettera di autorizzazione del Vescovo. Qui riuscirono a recuperare un gruppo ligneo raffigurante la Madonna con il Bambino in trono e la tavola di Nicolò di Pietro Paolo e Pietro di Niccolò della chiesa di Santa Maria Assunta raffigurante il Redentore benedicente tra la Vergine e san Giovanni Evangelista.

Gli ultimi viaggi furono a Tuscania il 6 e il 12 maggio, dove Lavagnino mise in salvo il polittico di Taddeo di Bartolo con la Madonna con il Bambino in trono e santi della chiesa di S. Francesco, la Madonna della misericordia, San Nicola da Tolentino di Valentino Pica il Vecchio della chiesa di Sant’Agostino, la Madonna con il Bambino del Pastura dalla chiesa di S. Maria del Riposo, il Redentore benedicente tra la Vergine e san Giovanni Evangelista del Balletta dalla chiesa di S. Lorenzo e San Bernardino e due angeli di Sano di Pietro dal duomo di San Giacomo apostolo.

Come annota Emilio Lavagnino nella Relazione al Soprintendente alle Gallerie del Lazio del 1944, «malgrado il numero non esiguo di trasporti effettuati e le località talvolta molto vicine alla linea del fronte e il fatto che sempre si è transitato su strade intensamente bombardate o mitragliate, nessuna delle opere d’arte traferite a Roma dai ricoveri o dalle chiese del Lazio nei primi cinque mesi del corrente anno ha subito il minimo danno».



Anna D’Agostino
Classe '93, laureata in Storia dell'Arte con una tesi in Museologia sull'arredamento dell'Ambasciata d'Italia a Varsavia dalla quale è scaturita una pubblicazione in italiano e polacco. Prosegue la ricerca inerente l'arredamento delle Ambasciate d'Italia nel mondo grazie a una collaborazione con la DGABAP del Mibact. É iscritta al Master biennale di II livello "Esperti nelle Attività di Valutazione e di Tutela del Patrimonio Culturale".