La gerarchia dei generi pittorici, formulata a inizio del XVII secolo e ufficializzata dalla francese “Académie royale de peinture et sculpture” (fondata a Parigi nel 1648), disponeva nel seguente ordine i soggetti nell’arte figurativa: pittura di storia (nella quale venivano rappresentati soggetti mitologico-letterari e storici), ritratto, pittura di genere (con illustrazione di scene della vita quotidiana e di riflesso della società contemporanea), pittura di paesaggio, pittura di animali e infine natura morta.
La pittura di paesaggio, quindi, venne codificata come genere indipendente solamente a inizio del Seicento. Attraverso il riferimento ad alcuni esempi, in questa sede cercheremo di sviluppare un excursus sulla genesi e sullo sviluppo della pittura di paesaggio come soggetto autonomo.
Da subito, è possibile affermare e partire da questo presupposto. Prima di ottenere uno statuto indipendente, il paesaggio come soggetto aveva sempre svolto un ruolo secondario, ponendosi come semplice cornice di ambientazione a storie di carattere laico o sacro. In questo contesto possiamo assistere a una tendenza visibile già a fine Quattrocento. Il paesaggio cominciava lentamente a sostituirsi al fondo dorato nelle pale d’altare, come possiamo vedere nel particolare con l’Incoronazione della Vergine della Pala di Pesaro, realizzata da Giovanni Bellini tra 1472 e 1474 circa. Qui, infatti, una veduta collinare e solare con un castello si dispiega alle spalle della Madonna.


Un’ulteriore trasformazione è collocabile nel corso del XVI secolo, quando – soprattutto nella pittura fiamminga – il paesaggio continua il suo processo di emancipazione dai soggetti religiosi e laici, divenendo il soggetto apparente delle opere. Il concetto di “apparenza” è da tenere in considerazione in quanto, sebbene la parte naturalistica occupi sezioni sempre maggiori nei dipinti, essa continua comunque a fungere da sfondo a una dimensione umana e sacra drammatico-narrativa. Lo si può vedere, ad esempio, ne Il riposo durante la fuga in Egitto, del 1520 circa, opera del fiammingo Joachim Patinir.

Qui, la Vergine e il Bambino occupano lo spazio principale in termini sia spaziali che di significato. Si trovano immersi in uno spazio naturale ricco e variegato, popolato da figure che emergono in secondo piano. Queste piccole scene non sono casuali e rimandano a episodi relativi al tema della fuga in Egitto, soggetto vero e proprio dell’opera. In altri termini, possiamo definire questo quadro come un “paesaggio di memoria” o “panottico”. In questo senso, dall’elemento centrale della Vergine col Bambino, è possibile osservare le altre scene tutte attorno come una storia inerente al soggetto stesso.
Da un punto di vista prettamente terminologico, il riferimento al “paesaggio” appare in Italia per la prima volta a Venezia verso il 1530, nella descrizione de La Tempesta di Giorgione (1505 circa), a opera del collezionista e letterato Marcantonio Michiel.

In questa occasione, la descrizione di Michiel è stata utile per la ricostruzione del possibile soggetto del dipinto giorgionesco, definito in quanto «paesetto» con un soldato e una zingara. Da notare come l’attribuzione di paesaggio sia al primo posto nel racconto di Michiel, indice quindi di una maggiore presa di coscienza nei confronti di questo dettaglio come possibile genere a sé stante.
Continuando questa panoramica sulla pittura di paesaggio, tra i riferimenti teorici, un ulteriore punto di vista è offerto da Plinio il Vecchio che, nel libro XXXV della Naturalis Historia (I secolo d.C.), parla di «parerga». Con questo termine veniva identificato il fondo dettagliato dei quadri. Se da un lato Plinio il Vecchio parlava di «parerga», Vitruvio – nel VII libro del De architectura (I secolo a.C.) – presenta anche la pittura murale e la pittura illusionistica. Questo passaggio è importante in quanto ci serve per comprendere l’emergenza della pittura di paesaggio “en trompe-l’oeil” (appunto, d’illusione). Nel recupero dell’antico che caratterizza così profondamente il Rinascimento, anche questa tipologia di soggetto – desunto dalle antiche ville romane e dai testi di Vitruvio – trova nuovo spazio in esempi quali la decorazione della Villa Barbaro a Maser (Treviso), realizzata da Paolo Veronese negli anni 1560-1561 circa.


Negli affreschi di questa villa, la sapiente tecnica di Veronese crea continuità tra lo spazio reale e lo spazio dipinto, offrendoci architetture che si fondono con la vera struttura della villa e scorci paesaggistici su preziose rovine antiche.
Negli esempi visti finora, abbiamo quindi osservato diverse declinazioni del genere “paesaggio” tra Quattrocento e Cinquecento. Nel secolo successivo, il Seicento, tale discorso subirà un’altra evoluzione, portando alla distinzione di “paesaggi storici” – il francese Claude Lorrain si contraddistinguerà per tele come Veduta di Delfi con processione sacrificale (1650 circa) – e all’approdo a più veloci procedimenti esecutivi e libertà formale (si veda, a tal propostio, Paesaggio con Apollo e la Sibilla cumana di Salvator Rosa, del 1655 circa).

Nonostante, infine, esempi come quello di Jacob Van Ruisdael (del 1670 circa) possano far pensare a una totale emancipazione del genere del paesaggio, si deve notare che si tratta ancora di esempi legati a una rielaborazione in bottega. Per una figurazione del paesaggio puro dipinto “d’après nature”, quindi dal vivo, bisogna aspettare l’Ottocento con le opere dell’inglese John Constable (1776-1837).

Ana Maria Sanfilippo
Classe ’96, risiede in Friuli-Venezia Giulia. Laureata presso l’Università degli Studi di Udine in Conservazione dei Beni Culturali, Studi italo-francesi, si sta specializzando in Arts, Museology and Curatorship a Bologna, dove sta frequentando l’ultimo anno della magistrale. Ha partecipato all’organizzazione della mostra digitale “Trasmissione”, di cui ha co-curato anche il catalogo. Ama la letteratura, l’arte e lo studio delle lingue straniere.