Nel tentativo di volgere agli esordi di Michelangelo Antonioni uno sguardo quanto più definitivo possibile, Lorenzo Cuccu introduce il documentario Gente del Po (1943-1947) affermando che si tratta di un film importante per i futuri sviluppi del Neorealismo. Inoltre, secondo lo studioso, non sarebbe casuale la simultanea realizzazione, sull’altra sponda del fiume, dell’esordio viscontiano. Le due opere acquistano così una sorta di specularità, compensandosi nella proposta di un percorso estetico di riscoperta dei luoghi in rapporto con la presenza umana in essi inserita, indipendentemente dallo statuto documentario o finzionale delle stesse. Ravvisiamo i presupposti di un radicale riassestamento dell’immaginario filmico italiano e, ancora per Cuccu, i primi passi di un autore «davanti a tutti». L’opera, in qualche modo incompiuta a causa della guerra, si presenta come una sorta di repertorio dei modi descrittivi antonioniani in una fase priva dell’elemento narrativo, ad esso ancora anteriore. Il ritorno a questi luoghi dell’infanzia permette al regista di esprimere una primordiale concezione di cinema come nuova percezione di una realtà colta nel suo continuo movimento. I ritmi lenti del fiume diventano quelli dei suoi abitanti e di conseguenza dettano la struttura della pellicola. Nove minuti – ma il materiale era originariamente molto più ricco – suddivisi in dieci segmenti tematici e punteggiati da diciassette interventi della voice-over. Tranne che per il primo, essa illustra il contenuto dei diversi segmenti seguendo principi di ridondanza e simultaneità. Solamente una volta si colloca in posizione intrusiva, quando il tempo verbale da presente atemporale muta in funzione interlocutiva, facendo coincidere quello dell’evento mostrato con quello spettatoriale.
Sviluppando lo spunto dello spostamento di un convoglio di barche lungo il corso del fiume, Antonioni fa coincidere lo statuto dell’immagine con la percezione tutta soggettiva della realtà che vi è mostrata, ricostruendo e sintetizzando attraverso il montaggio la “verità” che egli riscontra nella quotidianità degli abitanti della zona, la vita sulle barche, la messa domenicale, le scampagnate in bicicletta; per concedersi persino parentesi di lirismo, come la scena del cavallo bianco tra i canneti, la cui persistenza esemplifica la radicalità di uno sguardo inteso a registrare una durata che penetra e determina l’essenza stessa del materiale registrato. Secondo lo stesso regista, qui entra in gioco la dimensione del tempo, nella sua concezione più moderna, e il cinema giunge ad acquistare una nuova fisionomia, non più soltanto figurativa. A tal proposito, afferma: «Le persone che avviciniamo, i luoghi che visitiamo, i fatti a cui assistiamo: sono i rapporti spaziali e temporali di tutte queste cose fra loro ad avere un senso oggi per noi, è la tensione che fra loro si forma».
Quanto al ruolo del fiume nel nascente cinema neorealista, il cortometraggio di Antonioni predispone con sufficiente lucidità gli elementi successivamente ordinati da altri, come il ruolo di paesaggio ancestrale in cui il conflitto costringe brutalmente a ritrovare l’umanità. Ne convengono i recenti studi su Paisà (1946) di Roberto Rossellini, a partire dalle analisi dell’episodio siciliano in cui la prima impressione è di un magma indistinto, di una materia caotica immersa nel nero della lava e della notte, che sembra evocare i territori labirintici e segreti dell’inconscio. Nel sesto e ultimo episodio, questo principio di immersione dei corpi negli spazi alimenta la sostanza simbolica dell’ambiente fluviale precedentemente descritta. «La costruzione interna – spiega Ivelise Perniola – è dettata dalla volontà di raggiungere attraverso il linguaggio cinematografico non una maggiore chiarezza narrativa ma maggiori possibilità di sottolineatura tematica». Infatti, il regista trascura alcuni nessi a vantaggio dell’approfondimento umano della vicenda e la scandisce attraverso elementi di scrittura filmica – nel dettaglio, le dissolvenze – destinati a punteggiare il ritmo interno della diegesi senza lasciare grande spazio all’inventiva dell’interprete. Citando André Bazin, la studiosa riconosce che la tecnica di Rossellini più che comporre una catena di eventi sembra piuttosto chiedere allo sguardo (anche se il teorico francese parla di “spirito”) di saltare da un fatto all’altro, come si salta di pietra in pietra per attraversare un fiume. Gli eventi semplicemente accadono, per volontà o meno di coloro che li vivono, e ciò non intacca l’incessante scorrere del corso d’acqua. Premettendo che l’aderenza dell’immagine rosselliniana all’evidenza del fatto «si rileva nella costruzione in profondità di numerose inquadrature», bisogna constatare che spesso lo sfondo sul quale tale fatto si compie è quello naturale del paesaggio fluviale. Il primo dei tre enigmi che Perniola individua nell’episodio riguarda proprio quella carrellata sul bambino che si aggira piangendo tra i corpi distesi dei suoi parenti sparsi fuori dal casale. Se altrove la macchina da presa si muove secondo un percorso di registrazione documentaristica, in funzione degli spostamenti dei personaggi e in «assenza programmatica di movimenti che facciano prevalere il filmico sul profilmico», qui lo sguardo ritrova un’autonomia, si distacca dalla fattualità e continua a camminare escludendo il bambino dall’inquadratura, «per andare a fermarsi soltanto nel momento in cui il campo è sgombro da figure umane e rimane l’immagine del fiume che scorre e del sole che sorge sullo sfondo».
La conclusione della studiosa è che in questo modo si offre allo spettatore-testimone uno sguardo vagante e misterioso, ma allo stesso tempo si potrebbe affermare che la regia di Rossellini qui riafferma la centralità della natura nella sua indifferenza al dolore umano, raffigurata con lo scorrere incessante del tempo e del fiume. Ad ogni modo, l’acqua ritorna costantemente in primo piano lungo l’intero svolgersi dell’episodio e il suo significato simbolico rappresenta un altro degli enigmi in esso rilevati. Secondo Perniola qui assume una connotazione quasi religiosa, di purificazione dei peccati. «Le acque lente e limacciose del fiume – osserva – trattengono i corpi sulla superficie e ne conservano le tracce, trasformandosi in un monito naturale contro la crudeltà e le ingiustizie della guerra». Risulta poi evidente, come in Antonioni, la simbiotica esistenza di paesaggio e uomini che lo abitano o che, come nel caso dei soldati, vi trovano ospitalità. Si crea inevitabilmente un rapporto di appartenenza e di interdipendenza: la natura viene modifica nel corso del tempo, ma a sua volta può influenzare le specificità dei suoi abitanti. Nel caso di Rossellini, «il delta del Po brulica di uomini che affidano alla selvaggia conformazione naturale del luogo le ultime carte per la propria salvezza».

Alessandro Amato
Nato a Milano, conclude gli studi a Torino, dove continua a lavorare nell'ambito critico e festivaliero. Collabora con "A.I.A.C.E." e il magazine "Sentieri Selvaggi". Dirige rassegne di cortometraggi e cura eventi per la valorizzazione del cinema italiano. Quando capita è anche autore di sceneggiature per la casa di produzione indipendente "Ordinary Frames", di cui è co-fondatore.