CinemaPrimo PianoL’uomo differente: il cinema di Armando Crispino

Alessandro Amato12 Gennaio 2020
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Nato a Biella nel 1924, Armando Crispino appartiene alla generazione di cineasti italiani che hanno esordito nei primi anni Cinquanta, nonostante egli debba attendere il decennio successivo per avere l’occasione di passare alla regia dopo molta gavetta sui set di autori quali Luigi Comencini, Pietro Germi e Antonio Pietrangeli. Con quest’ultimo instaura quasi un rapporto di maestro-allievo, lavorando come aiuto regista per ben cinque pellicole del collega appena più anziano, da Lo scapolo (1956) a Fantasmi a Roma (1961). L’esordio, a fianco di un Luciano Lucignani molto meno pratico del mestiere, avviene su richiesta di Mario Cecchi Gori, nel segno di una produzione pseudo-colta, attraverso film a episodi tratti da testi letterari. Nel frattempo, continua a scrivere sceneggiature dei generi più disparati, dallo spionaggio simil-bondiano allo spaghetti-western.

Crispino è però uomo di cultura, appassionato di John Ford, Alfred Hitchcock e dei classici dell’orrore, tra i fondatori del cineclub torinese e, pertanto, teorico del cinema come ineguagliabile porta sul mondo dei sogni ma anche come rielaborazione del dramma umano. Inoltre, si tratta di un autore che è sempre riuscito a fare proprie le dinamiche di genere per innestarvi un discorso più articolato e complesso, a volte precorrendo i tempi. Crispino, negli anni Sessanta italiani, ha dovuto affrontare un vero e proprio percorso a ostacoli, dribblando un cinema d’autore e un universo commerciale similmente dogmatici, mostrando la volontà di appropriarsi del punto di vista dei suoi personaggi attraverso le numerose possibilità espressive della grammatica cinematografica e presentando con la sua variegata opera una libertà formale e una ricchezza rappresentativa fenomenali. Basti pensare al bellico Commandos (1968), un western un po’ metafisico ambientato durante la seconda guerra, con protagonista Lee Van Cleef.

Crispino ha realizzato molto meno del previsto e con poca frequenza, ma ha ugualmente lasciato tanto cinema, apparentemente piccolo eppure sempre di grande interesse per quel suo «approccio mai banale o pedissequo ai filoni dell’intrattenimento a basso costo» di cui parla Claudio Bartolini nell’unica gustosissima monografia critica sul cineasta. Persino leggere i soggetti mai realizzati può essere illuminante, perché essi dimostrano che dietro c’era un progetto, una volontà creatrice inarrestabile. A cominciare da L’uomo differente, idea che Crispino e l’amico sceneggiatore Lucio Battistrada sottopongono a Marcello Mastroianni già sul set di Fantasmi a Roma. Si tratta della storia di un uomo che non riesce a vivere serenamente una relazione a causa delle sue ossessioni feticistiche. Nettamente avanti rispetto al cinema coevo, la pellicola non si farà mai. Ci penserà qualche anno dopo Marco Ferreri a mettere una fissazione nella testa di Marcello per L’uomo dei cinque palloni (1965), altra opera incompresa.

Crispino è perciò costretto a lavorare sullo scarto, proponendo lo sfogo del trauma come motore dell’ingranaggio drammatico, al di là della contingenza narrativa. Per fare un esempio, il rimosso che si tramuta in vendetta trova spazio negli spaghetti John il bastardo (1967) e Requiescant (1967), anche se il secondo viene da lui solo sceneggiato per l’improbabile regia di Carlo Lizzani. In poco più di dieci anni si imbatte nei più diversi generi cinematografici senza mai scoraggiarsi, trovando piuttosto la chiave di volta in volta più suggestiva per «inserire il cuneo della sua soggettività autoriale». Rigenera l’ormai ansimante musicarello con Faccia da schiaffi (1969), riabilita le pellicole conventuali con La badessa di Castro (1974), irride le parodie con Frankenstein all’italiana (1975). Permettendosi, in questi frangenti, di operare sottili ma radicali cambiamenti su stilemi e figure attoriali (si legga Gianni Morandi, Barbara Bouchet, Ninetto Davoli). In particolare, è il thriller a permettergli di esplorare territori nascosti sotto la superficie della coscienza, che si concretizzano in rimossi della psiche dei personaggi, attraverso titoli considerati cult come L’etrusco uccide ancora (1972) e Macchie solari (1975).

Bartolini parla di «anfratti del terrore» presenti in quasi tutta la sua filmografia, e ciò viene confermato dallo stesso autore quando questi racconta in intervista di aver sempre avuto una fascinazione per gli incubi. L’etrusco uccide ancora viaggia sì sulla scia di Dario Argento e compagni, cogliendo però l’occasione per smontare il genere dall’interno e disinnescarne i meccanismi per riadattarli alle proprie necessità. E, cosa più importante, riesce a ottenere tutto questo senza lasciare che la teoria prenda il sopravvento sullo spettacolo. Pur rispettandone le regole basilari, scardina le certezze del genere con un affronto alla veridicità dello sguardo, mettendo in discussione l’attendibilità del mondo rappresentato e del punto di vista in generale, così da destabilizzare persino la fruizione di quel tipo di narrazione. Tolta la sospensione d’incredulità, ciò che sto guardando è reale? Nel cinema di Crispino la risposta è complessa: mentre L’etrusco uccide ancora risolve in effetti il mistero degli omicidi, non spiega affatto il motivo degli innesti sovrannaturali.

Ecco, in Crispino c’è sempre qualcosa che non torna: il suo mondo ha come un lato in ombra sul quale riusciamo a buttare soltanto rapide occhiate, dolorosi squarci nella superficie del vissuto che il più delle volte ci rimandano il nostro riflesso in frantumi. Un celebre autore d’oltreoceano come John Carpenter raggiunge un tale senso di verità attraverso la composizione musicale, aprendo al sottosuolo della psiche come Crispino fa con quelle immagini-soglia. In tal senso, Il seme della follia (1994), pur bello, non vale un minuto di Macchie solari. Nel primo si mette in discussione lo sguardo del protagonista, certo, ma senza che lo sia mai la prospettiva del regista nel metterlo in scena. Al contrario, nel film crispiniano – spiega Bartolini – «la macchina da presa ha imparato a osservare la porzione di realtà che ha di fronte mediandola con gli stessi filtri psichici ontologicamente propri di Simona». Quasi da subito non possiamo più credere alla ragazza. Di contro, nonostante si trovi in manicomio, non ci domandiamo mai se John Trent abbia davvero avuto quelle esperienze terribili. Le visioni di Crispino rimangono nell’oscurità e riusciamo solo a intravederle, quanto l’immaginario carpenteriano è oscuro ma continuamente sovraesposto dal potere della musica. Fa ovviamente piacere che Michael Myers, in occasione dei 40 anni e dell’ennesimo sequel, lo scorso autunno sia tornato nelle nostre sale. Ma sarebbe altrettanto entusiasmante scoprire che un autore come Armando Crispino non sia stato poi del tutto dimenticato.

Alessandro Amato

Nato a Milano, conclude gli studi a Torino, dove continua a lavorare nell'ambito critico e festivaliero. Collabora con "A.I.A.C.E." e il magazine "Sentieri Selvaggi". Dirige rassegne di cortometraggi e cura eventi per la valorizzazione del cinema italiano. Quando capita è anche autore di sceneggiature per la casa di produzione indipendente "Ordinary Frames", di cui è co-fondatore.