FotografiaPrimo PianoAutocromia, la svolta a colori

Valentina Bortolotti19 Maggio 2019
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Dopo aver studiato il procedimento per 14 lunghi anni, rifacendosi alle ricerche effettuate da Louis Ducos du Hauron trent’anni prima, il 10 giugno 1907 i fratelli Lumière introdussero le lastre Autochrome nel mercato parigino. Si trattava del primo procedimento di stampa a colori commercializzato e si basava sul principio della sintesi additiva su lastra e non su carta.

Come funzionava? La lastra di vetro veniva ricoperta con milioni di granelli di fecola di patate tinti di verde, blu-violetto oppure rosso-arancione, che fungevano da minuscoli filtri cromatici e si poteva applicare a qualsiasi fotocamera standard. I piccoli granelli formavano sulla lastra una sorta di mosaico visibile anche a occhio nudo, ricreando l’effetto conosciuto come “pointillisme” che tanto piaceva al pubblico.

Le lastre Autochrome offrivano ai fotografi, amatoriali o professionisti, una vasta gamma cromatica luminosa con potenzialità espressive romantiche e nostalgiche ampiamente sfruttate dai pittorialisti e fotosecessionisti. Tra i sostenitori più celebri di questa tecnica figurano Stieglitz, Steichen e Kuhn. Proprio quest’ultimo realizzò autocromie relative all’infanzia, immagini eteree e cariche di emotività: si consideri, a questo proposito, la fotografia che scattò nel 1911, Mary e la piccola Edeltrude sul prato. L’immagine riprende sua figlia minore e la tata sdraiate su un prato, che appare quasi un paesaggio onirico.

La fotografia in questione

Si trattò sicuramente di una grande rivoluzione; purtroppo però le lastre Autochrome avevano un enorme limite: erano prive di negativo quindi fornivano un’immagine positiva unica. Fu questo il motivo per cui i fotografi d’arte abbandonarono presto questa tecnica, che scomparve del tutto nel 1932. Dal 1907 al 1932 furono vendute ben venti milioni di lastre che, esaurito il loro periodo di utilizzo, lasciarono il passo alla carta. Negli anni Trenta la fotografia a colori venne adottata da tutte le riviste di stile e dalle agenzie di pubblicità, rendendo consequenziale l’associazione di tale tecnica all’ambito commerciale.

Tuttavia furono le avanguardie europee a contribuire in maniera decisiva portando il colore nella fotografia d’arte, in particolar modo i surrealisti. Outerbridge per esempio, che aveva acquisito dimestichezza con la complessità tecnica del procedimento carbro-tricromatico il quale richiedeva una precisione di lavoro estrema, applicò l’estetica modernista appresa a Parigi negli anni Venti alla fotografia. Ma in quale momento la fotografia a colori divenne fruibile anche al di fuori degli studi fotografici? Ciò avvenne negli anni Quaranta, quando vennero inventate le prime fotocamere portatili 35 mm e delle pellicole Kodachrome.

Sperimentazioni nel campo della fotografia in studio e del colore vennero fatte anche da Madame Yevonde, fotografa dell’alta società, che realizzò una serie di ritratti di donne nelle vesti di divinità della mitologia classica. L’idea era nata durante un ballo di beneficienza, l’Olympian Party, organizzato da Claridge’s il 5 marzo 1935, al quale parteciparono moltissime modelle abituali dell’artista. In quell’occasione la fotografa convinse le giovani donne a posare per lei indossando gli stessi costumi della festa: le immagini realizzate furono esposte all’inaugurazione del suo nuovo studio di Mayfair nel luglio 1935.

Lady Bridgett Poulett nei panni di Aretusa, una ninfa delle acque che bagnandosi nel fiume aveva catturato l’attenzione e il desiderio del dio fluviale Alfeo

La Yevonde aveva un motto – «Originalità o morte!» – e a giudicare dalle foto si capisce molto bene il suo punto di vista riguardo la fotografia: gli scatti sono tutt’altro che naturalistici, viene messa in risalto la stravaganza dei costumi e delle pose accentuata dal procedimento di stampa “Vivex color”.

Valentina Bortolotti

Nata a Roma, è laureata in Storia dell’arte e attualmente sta studiando per ottenere il patentino da accompagnatrice turistica. Fotografa autodidatta, guida turistica in erba, ama trascorrere il tempo nei musei in solitaria.