«Hugo von Hofmannsthal ha amato l’idea della morte assieme a quella della bellezza e della signorilità: fatto tipicamente austriaco». Così Thomas Mann parla di Hofmannsthal, poeta, romanziere, librettista e drammaturgo austriaco. Viennese, nato nel 1874, a soli diciassette anni pubblicò le sue prime poesie e il dramma lirico Ieri. Queste opere furono accolte con enorme successo, sia in Austria che in Germania. Studiò legge e poi filologia, ma più tardi si dedicò esclusivamente alla scrittura.
Nel 1900 incontrò il compositore Richard Strauss, per il quale compose i libretti de Il cavaliere della rosa (Elektra, Der Rosenkavalier), La donna senza ombra (Die Frau ohne Schatten) e Arabella. Nel 1911 riadattò il “morality play” inglese Everyman (del XV secolo), dandogli il titolo tedesco Jedermann: il compositore finlandese Jean Sibelius lo traspose in musica. Durante la prima guerra mondiale scrisse articoli e discorsi a sostegno del conflitto, ponendo l’enfasi sulla tradizione culturale dell’Austria-Ungheria. La fine della guerra, e quindi la fine degli Asburgo in Austria, fu un duro colpo per la sua mentalità, di stampo patriottico e inscritta nella tradizione propria del conservatorismo. Dopo la guerra continuò a essere molto produttivo e le ultime opere letterarie mostrarono un crescente interesse religioso, in particolare per il cattolicesimo. Sposato dal 1901, ebbe tre figli. Franz, il secondogenito, si suicidò nel 1929, all’età di ventisei anni. Due giorni dopo – il 15 luglio, poco prima del funerale del figlio – Hofmannsthal morì, colpito da un’emorragia cerebrale.
Il poeta austriaco figura tra i personaggi più singolari della letteratura europea. Già da giovanissimo sorprese gli ambienti letterari di Vienna con le sue liriche arcane e pervase da un soffio di morte e d’abbandono. Una della sue opere certamente più celebri e importanti è la Lettera di Lord Chandos (1902), saggio che è divenuto base essenziale di tutta la sua poetica, un manifesto della perdita della parola e del naufragio dell’io in un indistinto fluire delle cose e degli avvenimenti. Il protagonista della lettera, Lord Chandos, abbandona la professione di scrittore perché ogni parola gli sembra incapace di esprimere al meglio la realtà oggettiva. Lo scrittore si smarrisce allora nell’universo degli oggetti e tutto quello che gli si presenta davanti agli occhi è rivelatore di una realtà nuova: la più veritiera.
La realtà comunica al suo animo attraverso una molteplicità di voci che si moltiplicano ulteriormente. Tutto è per lui epifania del nuovo, che è allo stesso tempo il vero che mai prima d’ora aveva avvertito nella sua reale essenza. Gli oggetti della realtà assumono una sorta di dimensione mistica, poiché svelano agli occhi del Lord il loro valore assoluto e universale: anche le cose più semplici della quotidianità divengono strumenti in grado di spalancare i battenti di un nuovo universo e la parola non è quindi in grado di coincidere con la loro natura. Essa diviene mera ostentazione, un’esibizione imbarazzante e quasi uno scimmiottare:
«è cosa assolutamente priva di nome e a stento nominabile ciò che in questi momenti mi si annuncia, colmando di un flutto traboccante di vita più alta, come un vaso, una manifestazione qualsiasi del mio ambiente quotidiano. Un annaffiatoio, un erpice abbandonato nel campo, un cane al sole, un cimitero desolato, uno storpio, una piccola casa di contadini, tutto ciò può contenere la mia rivelazione. Ognuna di queste cose può assumere per me all’improvviso una sembianza nobile e commovente, che qualsiasi parola pare troppo misera per tentare di descriverla».
Lord Chandos attua la sua rinuncia alla letteratura perché, colpito da una sensibilità amplificata, non riesce più a distaccarsi dall’esperienza: non può dimenticare nessun attimo della propria vita, tutto coesiste e resiste in lui, minacciando la sua integrità. L’ordine dello scrittore crolla quindi prima nella sua vita e poi nella sua scrittura, perché si sente intessuto col mondo intero e tutto questo gli ha tolto la facoltà di fare letteratura, di dominare il pensiero e, con esso, il linguaggio. L’unico linguaggio che gli è dato conoscere è «una lingua di cui mi parlano le cose mute, e in cui forse un giorno, nella tomba, sarò chiamato a rispondere a un giudice sconosciuto». Manca la capacità di porre rimedio alla frattura del soggetto quale disciplinatore della realtà che lo attornia. Questa crisi permane irrisolta in tutta la letteratura novecentesca.

Lucia Cambria
Siciliana, laureata in Lingue e letterature straniere e in Lingue moderne, letterature e traduzione. Particolare predilezione per la poesia romantica inglese e per la comparatistica. Traduttrice di prosa e versi, nel 2020 ha trasposto in italiano per Arbor Sapientiae il romanzo "L’ultimo uomo" di Mary Shelley.