Parlare di Dante Alighieri, il giorno del Dantedì: vi può essere occasione più propizia per raccontare (sinteticamente e superficialmente, non si può aver altra scelta) come il grande viaggio del nostro poeta preferito ebbe inizio in quell’opera magistrale, sensazionale, straordinaria, nonché sublime, che è la Divina Commedia? Quando Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio discussero di Durante Alighieri in un acceso scambio epistolare, mentre analizzavano le sue opere e disquisivano in merito a pregi e difetti, carattere e stile, delle sue idee sul volgare e su Dio (in un secolo in cui la religione così come la conosciamo stava stabilendo le sue prime regole, distinguendo il vero dall’eresia), alla fine entrambi – un Boccaccio adoratore e un critico Petrarca – dovettero convenire su un’unica ineccepibile verità: senza la Divina Commedia, non si sarebbe potuto parlare di letteratura. E non solo italiana.
Non è per un’eccessiva vanagloria tutta italiana: Dante ha segnato intere generazioni e opere straniere e non. Era dietro John Milton, Miguel de Cervantes, Fedor Dostoevskij, Gustave Flaubert. Ha riempito le fantasie di quei poeti maledetti che operavano nella Francia di metà Ottocento. Era nella mente di poeti, musicisti e pittori, che si sono lasciati ispirare dai suoi versi. Era nel chiacchiericcio e in quei ritornelli che passavano di bocca in bocca, nei vicoli più bui. Parlare di Dante era come parlare di Omero. Di un poeta irraggiungibile e insondabile. Della massima autorità della letteratura moderna.
Il Dantedì, in questo 25 marzo, non vuol semplicemente celebrare il Maestro, padre della letteratura italiana, europea e, forse, mondiale. Ma la sua opera più celebre e iconica. Nonché quel viaggio che il personaggio di Dante intraprese il 25 marzo del 1265. Il lettero di ogni tempo è stato per sempre legato a quel viaggio sin dal primo verso, quando quell’Alighieri ci trasse dentro la selva oscura, con quel suo: «Nel mezzo del cammin di nostra vita». Ha reso universale la sua esperienza, perché sia un “itinerarium mentis”, un cammino di redenzione comune attraverso la propria anima. Un cammino alla ricerca della pace dell’anima per tutti coloro che leggono. E con quel «nostra», ci ha tratto via dallo smarrimento, dalla perdita comunissima della «verace via».
Scrive di aver abbandonato la via della verità – la «verace via», per l’appunto – a causa del sonno o, meglio, dello spirito. Racconta di essere uscito da questo grave turbamento interiore e, dopo una tale selva, di essere giunto ai piedi di un colle. Rincuorato, sale gli scalini che conducono in cima e scorge il sole che conduce nella giusta via, e quindi a Dio. Ma, nel momento stesso in cui – lieto – risale quei gradini, si presentano le tre fiere, rappresentanti i peccati più gravi, non solo della sua ma di ogni epoca: la lussuria, la superbia e, soprattutto, la cupidigia. Alla vista della cupidigia, simboleggiata dalla lupa, il male più grande di Firenze (e non solo), il poeta si sente venir meno e quasi torna indietro, abbandonando il suo intento espiatorio. Dante, infatti, aveva ben visto quali effetti rovinosi potesse produrre un tale smodato desiderio di possesso e l’invidia per chi racimola di più. Ed era stato lui stesso vittima di questo tremendo vizio, di questa malattia umana. Eppure, proprio quando tutto pareva perduto, giunge Virgilio. Ma chi è Virgilio? Cosa simboleggia questo grande poeta romano? La ragione, certamente la ragione. Ma se volessimo essere un po’ romantici, potremmo perfino considerarlo simbolo della letteratura stessa. Di come quest’ultima possa effettivamente salvarci da questi tre vizi. E chissà quante volte Dante ha salvato i suoi lettori. Sarà Virgilio a dire a Dante che dovrà proseguire in un’altra direzione. Più faticosa, vero, ma non sono proprio le esperienze più ardue a essere più soddisfacenti?
E, qui, una volta che avrà rilevato che la ragione basta fino a un certo punto, perché occorre – in un secondo momento – la beatitudine della fede, Virgilio fa una profezia, una delle tante. Ci parla di un umile regnante, vestito di veltro, che cambierà la sorte di Firenze, forse del mondo. Non si sa chi sia. Magari Dante non aveva nessuno in mente, oppure era Cristo stesso. Si trattava, forse, di un qualunque cittadino retto, in grado di cambiare in prima persona, con le sue azioni, la sorte della sua città? Non a caso il critico Pietro Cataldi, nei suoi scritti, ha fatto più volte accenno all’idea di Dante di potersi salvare da una condizione catastrofica solo inventando nuove forme di ricostruzione. E certamente il poeta non voleva fare esclusivamente riferimento alla forma politica della sua Firenze e, poi, dell’Italia: si riferiva certamente e soprattutto all’individuo. Anche perché, come già scritto da Platone nella Repubblica, non si può costituire uno stato giusto, senza individui retti. La Divina Commedia è per questo un’opera profetica. E un’opera (da qui la sua grandezza) che mira a cambiare lo spirito di chi legge, in modo che possa essere un cittadino migliore.
Eppure, al di là delle profezie, delle tante profezie, che vengono fatte in questo poema straordinario, perché in molti hanno sentenziato che la Divina Commedia fosse un’opera profetica? Essere profeti, ci fa intuire questo grande poeta, non è dire per filo e per segno quello che accadrà (la parola, in questo, si sposa bene al futuro, nebuloso e incerto), ma è pronunciare un oracolo che non sarà inteso se non quando sarà tempo che venga decifrato. È dire qualcosa che sarà compreso solo dopo tanti anni. E chissà quanto ancora si potrebbe imparare da Dante, in tempi così bui, dove la ragione ineludibilmente ristagna.

Adele Porzia
Nata in provincia di Bari, in quel del ’94, si è laureata in Filologia Classica e ha proseguito i suoi studi in Scienze dello Spettacolo. Giornalista pubblicista, ha una smodata passione per tutto quello che riguarda letteratura, teatro e cinema, tanto che non cessa mai di studiarli e approfondirli.