LetteraturaPrimo PianoIl prodotto dell’«uomo umanato»: la poesia secondo Edoardo Sanguineti

Lucia Cambria5 Giugno 2020
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«Che cosa è l’uomo? dove cerchi i suoi segni?
è il barometro, l’architettura barocca, il fazzoletto:
non c’era il pane, nemmeno, una volta,
né i tarocchi, né i fotoromanzi, né il letto»

 

Con questi versi di Ballata dell’automa si riassume una delle tecniche più utilizzate nella poesia di Edoardo Sanguineti, romanziere, poeta e critico letterario genovese scomparso dieci anni fa. Nell’assemblage, questo il nome dell’espediente lirico impiegato, degli oggetti, o anche solo dei segni – parola quindi consapevolmente scelta nel primo verso – vengono estromessi dalla cornice in cui sono abitualmente collocati e, in una nuova ambientazione, divengono autonomi; nel loro anonimato e nel loro essere insignificanti, dilatano la loro forma in maniera inusuale, divenendo d’un tratto colonne portanti del tutto. Alla domanda: «Che cosa è l’uomo?», quindi, Sanguineti sceglie di parlare di tutto ciò che lo circonda, di tutto quello che si fa piccolo accanto all’uomo, ma che fa l’uomo, nel senso sia passivo che attivo del verbo.

A dieci anni dalla morte di Sanguineti, scomparso nel maggio del 2010 a Genova, i versi di colui che è stato considerato persino l’ultimo intellettuale del Novecento, continuano a plasmare l’«uomo umanato».

Trasferitosi a Torino all’età di quattro anni, trascorse qui tutti i suoi anni di formazione fino alla frequentazione della facoltà di lettere e del mondo culturale degli anni Cinquanta. Divenne prima professore al liceo e poi presso le università di Torino, Salerno e Genova. Fu tra i teorici del Gruppo ‘63, movimento letterario d’avanguardia istituitosi a Palermo nel 1963.

Lo sperimentalismo d’avanguardia inizia a manifestarsi nelle sue prime raccolte poetiche (Laborintus 1956, Opus metricum 1961), in cui il linguaggio è specchio del declassamento della figura dell’intellettuale, divenuto ormai un animale sociale o, meglio, un oggetto sociale.

Come nelle montaliane “occasioni”, Sanguineti registra coi suoi versi sprazzi di vita, sembianze, forme che non si limitano a fungere da corollario alla realtà ma che costituiscono determinate emozioni o sensazioni, in un processo che si avvicina al correlativo oggettivo.

La mutazione attuata da Sanguineti consiste nell’elaborare formule innovative sia nella forma metrica che nel linguaggio impiegato. La punteggiatura ricama i versi, intervallando parentesi aperte e chiuse a parole che sembrano riversarsi in un flusso di coscienza universale. In una delle sue poesie più celebri, Se d’amore si muore, siamo morti, noi, il poeta, dopo aver decretato la conseguenza dell’amore mortale – che si farà vitale nell’ultimo verso («se d’amore si vive, siamo vivi») – interseca una dichiarazione romantica a una serie di espressioni dal sapore prettamente moderno-contemporaneo, toccando – naturalmente – il mondo letterario:

 

«se d’amore si muore, siamo morti, noi:
siamo un romanzo d’appendice in atto: (anzi,
siamo un romanzo nazional-popolare, ma calibraticamente camuffato da romanzetto rosa):
(anzi, siamo un romanzo osè): (un rosè): (anzi, una coppia di vegeti, di vegetanti vecchietti,
torchiati nel torpido torchio delle nozze d’argento): (a un passo, a un pelo, appena,
da un romanzo nero): (siamo un romanzo rosso, quasi): e noi facciamo, parliamoci chiaro,
pena piena, e pietà»

 

Come si nota, le parentesi rappresentano il frutto di un introspettivo soliloquio, di un dialogo interiore con l’io contemporaneo, di un versificatore che si combina – arti, vertebre, nervi – con la società della quale gli è toccato essere spettatore e, insieme, narratore.

La poesia è per Sanguineti un “prodotto”, nel senso quasi industriale del temine, una merce ideata e assemblata da un poeta inventore e produttore. Come scrisse infatti ne I santi anarchici (1951), una vera e propria dichiarazione poetica, «chi scrive, scrive, in sostanza, per la semplice ragione che non trova, disponibili e prefabbricate, per quanto si guardi in giro, quelle poesie, quelle scritture in genere, che vorrebbe precisamente leggere, e deve costruirsele da solo». Scrivere è allora un atto quasi “artigianale”, «un autentico fai-da-te che trova una convalida iniziale, se si è fortunati, in una limitata cerchia di consumatori, altrettanto insoddisfatti delle merci letterarie che circolano nel mercato dei versi e dei libri».

L’insoddisfazione è allora ciò che muove scrittori e lettori verso un unico fine, ovvero quello di essere partecipi di quella «vita clandestina» vissuta dalla poesia.

Lucia Cambria

Siciliana, laureata in Lingue e letterature straniere e in Lingue moderne, letterature e traduzione. Particolare predilezione per la poesia romantica inglese e per la comparatistica. Traduttrice di prosa e versi, nel 2020 ha trasposto in italiano per Arbor Sapientiae il romanzo "L’ultimo uomo" di Mary Shelley.