Cesare Pavese può essere definito, per usare una citazione dantesca, «il miglior fabbro» della letteratura italiana del Novecento: critico letterario, poeta, romanziere e traduttore. Dopo aver iniziato la propria attività di traduzione (in particolare dei grandi autori americani, tra i quali Walt Whitman) e poetica (con la pubblicazione di Lavorare stanca, nel 1936), nel 1941 debutta nella narrativa con Paesi tuoi.
Scritto tra il 1939 e il 1941, Paesi tuoi preannuncia il tema che caratterizzerà l’opera pavesiana: il contrasto tra città e campagna, in cui quest’ultima è quel luogo che ancora preserva i simboli del mito. Esso è l’infanzia, in particolare l’origine nelle Langhe, contrapposte alla città di Torino: Pavese è infatti nato a Santo Stefano Belbo, in provincia di Cuneo, ma ha vissuto per lo più nel capoluogo piemontese. Per questo motivo le Langhe rimarranno sempre il luogo mitico del ritorno, del senso di origine e di appartenenza: nel suo ultimo romanzo, La luna e i falò, Pavese scrive che «un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti».
Il mito si trova allora tutto condensato nelle Langhe, simbolo permanente di infanzia, di vitalismo, ma anche di irrazionalità, tutti elementi che si contrappongono alla ragione della città di Torino, luogo dell’età adulta e della riflessione. La terra delle colline e delle campagne è luogo di iniziazione e di istinto, così come traspare da Paesi tuoi, considerato dalla critica come esempio di romanzo naturalista. Berto e Talino, un meccanico e un contadino, vengono dimessi di prigione e il secondo convince il primo ad andare con lui al paese per occuparsi della trebbiatrice. La famiglia di Talino è composta dal padre Vinverra, dalla madre e da quattro sorelle, tra le quali spicca in particolare Gisella, che appare diversa rispetto alle altre tre, meno legata a quell’ambiente rurale.
Col tempo, Berto viene a sapere che Gisella è stata vittima di una violenza sessuale da parte del fratello Talino. Questo è un elemento che rimanda al mito, all’irrazionalità, oltreché al tabù della sessualità e dell’incesto. Sessualità che sembra trasparire persino dall’ambiente circostante, dal paesaggio sovrastato da colline che vengono soprannominate “mammelle”: la terra è quindi madre che genera e che custodisce in grembo l’uomo e il suo istinto.
Su questa terra che alleva e che culla l’uomo e la sua natura, viene riversato il sangue di Gisella, alla cui gola il fratello pianta un forcone. Le “mammelle”, le colline della terra, vengono offuscate dall’immagine dei seni scoperti e insanguinati della fanciulla: ella ha tutti i connotati della madre che l’ha generata. L’acqua che Gisella stava attingendo dal pozzo prima di essere ferita e il sangue che sgorga lavano il terreno come in una cerimonia di purificazione, necessaria affinché la vita riprenda come prima: «Il fango dov’era caduta col secchio faceva spavento, così nero; e la strada fino al grano era sempre più rossa, più fresca».
Una volta che la terra si è dissetata del sangue sacro e puro della vittima, il lavoro riprende: mentre ancora Gisella è agonizzante nel letto di camera sua, si odono i rumori del lavoro ripreso come se niente fosse accaduto. Il forcone, lo strumento che simboleggia il lavoro della terra, il più ancestrale di tutti, diviene arma contro l’innocenza che – adesso si comprende – non è parte di questo mondo. Gisella diviene vittima sacrificale, il suo assassinio è un rito dal sapore primordiale, un’offerta quasi propiziatoria volta ad alimentare la fertilità di quella terra che alleva i figli secondo leggi da millenni immutate.

Lucia Cambria
Siciliana, laureata in Lingue e letterature straniere e in Lingue moderne, letterature e traduzione. Particolare predilezione per la poesia romantica inglese e per la comparatistica. Traduttrice di prosa e versi, nel 2020 ha trasposto in italiano per Arbor Sapientiae il romanzo "L’ultimo uomo" di Mary Shelley.