LetteraturaPrimo PianoWilliam Wordsworth e il suo vagare nella solitudine

Lucia Cambria21 Giugno 2021
https://lacittaimmaginaria.com/wp-content/uploads/2021/06/gggggg.jpg

Se c’è una cosa che abbiamo riscoperto nel caos dell’anno pandemico, è la forza distruttrice ed egualmente pacificatrice della solitudine. Presi dai ritmi del vivere frenetico abbiamo tralasciato il rapporto col nostro io, volgendo l’attenzione ad altro. Ma non è solo il nostro io quello che conta, bensì anche il riflesso del mondo circostante sulla nostra anima, l’effetto assordante e abbacinante che “ciò che è fuori” può provocare alle sensazioni. E ciò fu una fondante prerogativa per la poesia romantica, edificata sui piani dell’essere lirico immerso nella natura e nel paesaggio.

Una poesia in particolare, scritta nel 1804 e pubblicata nel 1807 in Poems, in Two Volumes, unisce le due tematiche – la solitudine e l’addentrarsi anima e corpo nei naturali elementi – ed è anche una delle più celebri composizioni liriche di William Wordsworth. I Wandered Lonely as a Cloud, questo il titolo della poesia in questione, condensa in sé tutta la tensione alla solitudine e, insieme, alla ricerca di quella fonte di ispirazione lirica che soltanto se liberi da qualsiasi distrazione “umana” può essere scorta.

L’ispirazione per questi versi giunse al poeta dopo una passeggiata con la sorella Dorothy nei pressi di Glencoyne Bay, nel Lake District. Il poeta sostenne di essere stato indotto alla scrittura dei suoi versi dalla pagina di diario della sorella in cui era descritta questa giornata. Il poeta, solo come una nuvola, è totalmente rapito dal movimento della vegetazione, dalla luce solare che illumina le giunchiglie ondeggianti del campo:

 

«una moltitudine di dorate giunchiglie;
attorno al lago, sotto gli arbusti,
svolazzanti e danzanti nella brezza»

 

La brezza leggera che corre per la campagna fa ondeggiare i fiori: essi brillano della stessa lucentezza degli astri della via lattea nello sterminato etere che li sovrasta. Disposti in fila, la loro luce è perpetua e accesa, ma il loro spazio è la terra, che animano con danze:

 

«Perpetui come le stelle che luccicano
e rilucono nella via lattea,
s’estendevano in una sterminata schiera
lungo il margine della baia»

 

La gioia del poeta giunge quando è consapevole di essere in realtà in compagnia, sebbene questa sia offerta da una presenza che sa più di assenza, di parvenza: qualcosa di etereo si staglia all’orizzonte fisico del paesaggio e a quello dell’animo. Queste giunchiglie hanno ormai perso tutta la loro materialità, sono inondate dalla luce e si sono fatte luce, trasmettendo la loro nuova essenza sull’immaginario dell’io poetico. Questi sprazzi di luce persistono innanzi al poeta anche quando questi è inattivo, cullato dall’indolenza:

 

«Appaiono su quell’occhio interno
che è la beatitudine della solitudine;
e allora il mio cuore s’empie di gioia
e danza con le giunchiglie»

 

Negli ultimi versi è riassunto tutto il processo che avviene nell’interiorità del poeta: una condizione di solitudine interferita dall’osservazione della natura che tutto regola, persino l’ispirazione poetica. Il cuore del poeta non può far altro che prendere a danzare al ritmo di quel fermento luminoso, divenendo tutt’uno con l’universo.

Lucia Cambria

Siciliana, laureata in Lingue e letterature straniere e in Lingue moderne, letterature e traduzione. Particolare predilezione per la poesia romantica inglese e per la comparatistica. Traduttrice di prosa e versi, nel 2020 ha trasposto in italiano per Arbor Sapientiae il romanzo "L’ultimo uomo" di Mary Shelley.