LetteraturaPrimo Piano“We Are Seven”: una ballata di William Wordsworth sul rapporto con la morte

Lucia Cambria8 Agosto 2022
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Nelle Lyrical Ballads, raccolta poetica pubblicata nel 1798 da Samuel Taylor Coleridge e William Wordsworth, è inclusa una poesia di quest’ultimo intitolata We Are Seven (Noi siamo in sette). In essa l’io poetico dialoga con una bambina chiedendole quanti siano i suoi fratelli e le sue sorelle. Detto così, il tema pare abbastanza semplice, se non banale. Ma la prima strofa della poesia pone un quesito al lettore: cosa ne potrà mai sapere una piccola fanciulla della morte? Una bambina che è percorsa in tute le membra dallo spirito vitale, così piccola e semplice, perché dovrebbe dedicare la propria fanciullezza al pensiero dei morti?

 

«Una semplice Fanciulla,
Che respira lievemente,
E sente in ogni arto lo spirito vitale,
Che dovrebbe saperne della morte?»

 

Wordsworth raccontò che l’idea per questa poesia gli venne viaggiando da solo per l’Inghilterra nell’autunno del 1793. Questa solitudine nella natura lo incoraggiò a ricercare non soltanto gli elementi piacevoli di questa esperienza, ma anche il lato più sinistro. Giunto al Castello di Goodrich, incontrò una bambina che sarebbe poi stata d’ispirazione per questa poesia. Non si sa cosa esattamente la ragazzina gli disse, ma incuriosì il poeta a tal punto che anni dopo – nel 1841 – tornò nello stesso luogo sperando di rivederla, ma senza successo.

Dopo aver posto questo quesito, il poeta procede con la descrizione della bambina:

 

«Incontrai una piccola ragazzina di campagna:
Aveva otto anni, mi disse;
I suoi capelli erano dei fitti riccioli
Che cingevano la sua testolina.

Aveva un aspetto grezzo, boschivo,
Ed era selvaggiamente abbigliata:
I suoi occhi erano chiari, molto chiari;
La sua beltà mi allietava»

 

A questo punto il poeta chiede alla bambina quanti fratelli e sorelle abbia e lei risponde che sono in sette:

 

«“E dove sono? Ti prego, dimmi”.
Lei rispose, “Siamo sette;
Due di noi vivono a Conway,
E due sono per mare.

Due di noi giacciono nel camposanto,
Mia sorella e mio fratello,
E nella casa nel campo, vivo
Io, vicino a loro, con mia madre”»

 

Il poeta a questo punto è frastornato dalla risposta della bambina: se due sono nel camposanto, non si spiega come mai dica che siano in sette. Al suo puntualizzare, la fanciulla si ostina a dire che il numero dei fratelli e sorelle sia quello e, anzi, inizia a elencare una serie di attività che è solita svolgere proprio vicino alle tombe dei due fratelli che lì giacciono:

 

«“Le loro tombe sono verdi, si vedono”,
Rispose la fanciullina,
“poco più di dodici passi dalla porta di casa,
E sono lì fianco a fianco.

Spesso rammendo lì le mie calze,
Lì cucio i miei fazzoletti;
E lì mi siedo a terra
E canto per loro.

E spesso dopo il tramonto, Signore,
Quando è illuminato e chiaro,
Porto la mia scodellina
E mangio lì la mia cena”»

 

Le tombe dei suoi fratelli sono verdi, dice. Questo per evidenziare non soltanto la giovane età dei due fanciulli, ma anche per porre la realtà dal punto di vista della bambina: quelle tombe non sono simbolo di morte, ma di rinnovata vita, di presenza ancora tangibile.

Nelle successive strofe racconta della morte di Jane e John, questi i nomi dei fratelli, i quali dimostrano anche, nella loro assonanza, una sinistra complementarietà che si aggiunge alla già perturbante inquietudine dello scenario del dialogo. Quando morì Jane, lei e John erano soliti giocare attorno alla tomba della sorella e ora che anche il fratello giace lì, la sua esistenza continua a ruotare attorno a quel luogo che non è, nell’ottica della fanciulla, un monumento eretto a memoria dei fratelli scomparsi, ma una vera e propria estensione delle loro vite.

La parola “morte” non è mai stata pronunciata nella poesia, fino a quando l’io poetico, incapace di comprendere quel modo di pensare della fanciulla di campagna, esplode, sopraffatto da un impeto della ragione, esclamando:

 

«“Ma sono morti, loro due sono morti!
I loro spiriti sono in cielo!”
Ma quelle furono parole vane, poiché
La fanciulla ripeteva
“No, siamo in sette!”»

 

Nella poesia è evidente l’oscurità nella quale si trova la fanciulla, inconsapevole di cosa sia in realtà la morte e di cosa comporti quella eterna separazione. Difficile rimane comprendere se questa sia davvero la sua convinzione o se si tratti di una dissimulazione rivolta a celare lo sgomento della perdita. Sebbene l’io poetico voglia imporre la propria razionalità, il lettore – nello scorrere il fluire dei versi – non è portato a schierarsi dalla sua parte. Al contrario, il ragionamento della fanciullina pervade la coscienza di chi assiste a questo dialogo, che suscita al contempo tenerezza e inquietudine e crea in tal modo un’inevitabile dicotomia tra l’empatico e il conturbante.

Lucia Cambria

Siciliana, laureata in Lingue e letterature straniere e in Lingue moderne, letterature e traduzione. Particolare predilezione per la poesia romantica inglese e per la comparatistica. Traduttrice di prosa e versi, nel 2020 ha trasposto in italiano per Arbor Sapientiae il romanzo "L’ultimo uomo" di Mary Shelley.