«C’è da impazzire a stare sempre fra quattro mura!», afferma la collega di Carole in Repulsione (1965) di Roman Polanski. La protagonista, interpretata da Catherine Deneuve, non si presentava a lavoro da giorni e la sua giovane amica cerca di farle capire che ciò non è sano. Ma come può una persona disturbata intendere lucidamente cosa è o non è normale? Normalità è ordinarietà, e per la ragazza è ordinario sentire rigetto per il proprio corpo e per gli altri. In primo luogo, non ama se stessa. Lo capiamo quando si guarda specchiata in una teiera e ne prova ribrezzo. È perciò diffidente nei confronti della sessualità e più in generale nel relazionarsi con gli uomini. L’intero film esprime questo suo distacco dagli istinti naturali e dalla socialità. A partire già dalla prima sequenza, appare evidente come la casa in cui vive è per lei nido e prigione, luogo dove nascondersi e torturarsi. Già prima che la sorella annunci di dover partire, Carole nota una crepa la cui esistenza rimane però dubbia poiché il regista non concede subito un dettaglio visivo che ce ne dia conferma.
Quella fenditura e le successive invasioni subite dalla protagonista nella sua abitazione, siano esse reali o immaginarie, sono solo l’inizio di un percorso che Polanski fa attraverso i varchi della condizione umana. Nel film precedente, Il coltello nell’acqua (1962), che segna il debutto del regista polacco dietro la macchina da presa, l’occupazione era stata di un giovane nei confronti della barca di una coppia ricca. Nel successivo, Cul de sac (1966), ci troviamo nuovamente di fronte all’arrivo improvviso di sconosciuti nello spazio appartenente a due persone. Insomma, le prime opere di Polański hanno a che fare specificatamente col concetto di convivenza e con l’inevitabile emergere di desideri e tensioni. Per dirla diversamente, si esprime lo strappo tra individuo e società, tra privato e pubblico. E questo pare quasi ironico, se si pensa a come la vita di Polański sia cambiata solamente qualche anno più tardi, quando la tragedia di Cielo Drive porterà insieme al lutto una pubblicità certamente a lui sgradita.
Anche Per favore non mordermi sul collo (1968), prima e unica volta in cui l’autore dirige Sharon Tate, contiene elementi di offesa dello spazio personale. In primis, il concetto di vampirismo è evidentemente collegato all’appropriazione, alla caccia, alla trasformazione dell’altro. Anche Colin e il padrone di casa volevano mutare lo stato di Carole in Repulsione, l’uno forzandola a uscire con lui e l’altro cercando di abusarne. Qui invece c’è un primo assalto al corpo di Sharon da parte del conte succhiasangue, il quale apre uno squarcio nel soffitto della casa per poterla fare sua, e un secondo ai danni dell’assistente dello scienziato esperto di pipistrelli, interpretato dallo stesso Polański. L’intera filmografia del regista mostra quindi una carrellata di corpi assediati, e di conseguenza di donne e uomini in fuga, che ovviamente a un certo punto lo rappresentano pienamente e ne diventano alter ego. E ciò risulta chiaro se si guardano film come Frantic (1988) o Il pianista (2003).
Ancora assediata è la mogliettina interpretata da Mia Farrow in Rosemary’s Baby (1968), la quale deve proteggere se stessa e il suo bambino da vicini decisamente invadenti e dai loro loschi propositi. Anche lei a un certo punto si specchia senza quasi riconoscersi, o forse guardandosi per la prima volta. E la stessa cosa accade a Trelkowski, anch’esso interpretato da Polański, nel film L’inquilino del terzo piano (1976). L’uomo si accorge che nel suo armadio sono rimasti alcuni vestiti della precedente locatrice e ne tira fuori uno. Lo osserva, lo accarezza e poi lo ripone. Chiudendo l’anta dell’armadio si ritrova di fronte il proprio riflesso ed è come se non vedesse qualcosa di nuovo in sé. Ma al di là della cosiddetta “trilogia degli appartamenti”, già nota e diffusamente analizzata in passato, è possibile ravvisare elementi di questa poetica dell’assedio anche in altri film del regista. In fondo, Nastassja Kinski in Tess (1979) è una creatura in balìa del fato, una vera e propria preda.
Ma sono bersagli in movimento anche la protagonista di Che? (1972) e le due ragazze in Chinatown (1974). Così come lo diventa lo scrittore al centro del film L’uomo nell’ombra (2010). C’è, insomma, un diffuso senso di persecuzione nel cinema di Polański, che ha prodotto – sul piano strettamente espressivo – una serie di pellicole configurabili come uno studio su una condizione esistenziale comune a molti uomini: la sensazione che il destino non sia altro che un circolo di eventi sui quali non abbiamo alcun controllo e che l’impotenza (raccontata attraverso le azioni dei personaggi, lungo 60 anni di cinema) sia in effetti reale e spaventosa.

Alessandro Amato
Nato a Milano, conclude gli studi a Torino, dove continua a lavorare nell'ambito critico e festivaliero. Collabora con "A.I.A.C.E." e il magazine "Sentieri Selvaggi". Dirige rassegne di cortometraggi e cura eventi per la valorizzazione del cinema italiano. Quando capita è anche autore di sceneggiature per la casa di produzione indipendente "Ordinary Frames", di cui è co-fondatore.