L’umanità nelle sue forme sociali afferra e scaglia nelle architetture del proprio quotidiano gli acuti e infervorati manifesti artistici del Novecento. In tredici proiezioni, dodici brevi film e un prologo iniziale, Julian Rosefeldt nella sua opera Manifesto fonde insieme in un collage verbale diversi manifesti politici e artistici e le riflessioni di singoli artisti firmatari degli stessi: futuristi, dadaisti, suprematisti, situazionisti, costruttivisti, surrealisti, espressionisti astratti, concettualisti, minimalisti.
Le proiezioni, in mostra al Palazzo delle Esposizioni dal 26 febbraio al 22 aprile, si evolvono in una esperienza uditiva e visiva culturalmente dirompente, trasportando il fruitore in una immersione intensa e criticamente attuale. In accenti ritmici modulati, gli ideali programmatici sono enunciati in dodici storie interpretate dall’attrice australiana Cate Blanchett che, autentica trasformista, veste i panni di undici personaggi femminili e uno maschile, assumendo su di se’ la forza e l’ostinazione, l’ironia e l’irriverenza, la rabbia e la determinazione dei postulati.
Declamati e declinati con le sfumature che si addicono a ogni storia, gli assiomi a cadenze regolari assumono carattere corale, caratterizzando la sala di un afflato rituale, proprio di un credo che si vuole innalzare dalla contingenza di singole vite a una universale aspirazione alla verità. Il manifesto ha le proprie regole, i propri canoni da rispettare, che assumono lo stesso valore e la stessa unità fono-acustica di una litania liturgica.
Fin dal prologo la forza e l’immediatezza dei proclami si fa evidente: la miccia si accende, le fiamme procedono con tormentata passione consumando il tempo dell’attesa fino all’inevitabile esplosione. Ma la miccia accesa è anche un fuoco d’artificio sparato alla luce del sole per il divertimento e il sollazzo dei partecipanti, secondo un’intenzione che rivela una divertita innocenza infantile nel cui mondo trova spazio la speranza che è la matrice di ogni percorso artistico genuinamente compiuto.
A urlare al vento in una cornice di architettura industriale ridotta a ruderi, arriva un clochard dagli occhi cerulei, che nella chiarezza di una visione periferica rompe il vetro di silenzio e di ipocrisie, inneggiando a un’arte onesta, che possa vibrare negli animi dell’umanità.
Poco avanti una broker, nella moltitudine di colleghi, nell’incessante suono dei numeri della borsa e nell’irrefrenabile corsa del tempo e del denaro, declama gli scritti futuristi rimanendo vigile, ma seduta sulla propria sedia, nell’architettura di luce dell’edificio che la ospita o che la trattiene.
In risposta una ragazza punk proclama, iraconda, la necessità e la volontà di rompere con la mimesis in favore della creazione, del pensiero, dell’adesso che ci appartiene, incurante del passato che si è spento e in barba anche al futuro di là da venire, nella forza interiore ed egotista del creazionismo.
Un’amministratrice delegata nei manifesti del Vorticismo, del Cavaliere Azzurro e dell’Espressionismo astratto articola il proprio discorso enfatico e promozionale durante un festeggiamento aziendale.
L’operaia di un inceneritore di rifiuti, passando da casermoni simili a macchine e a fabbriche con pilastri da cattedrali, assembla un manifesto dell’Architettura avanguardista, mentre smista gli scarti manovrando giganteschi bracci meccanici dalla forma disturbante delle “gru pesca peluche”.
Il Suprematismo e il Costruttivismo sono formulati da una scienziata dagli occhi di un verde serpentino, all’interno di una camera anecoica.
Il DADA pone le proprie riflessioni in seno a una cerimonia funebre dove l’orante abolisce ogni appiglio alla logica, alla memoria, al futuro, per rivendicare il nulla come assunto e lanciando terra a chi, ormai corpo spento, ha concluso il proprio tempo.
Nel laboratorio surreale e inquietante di burattini gli accenti espressivi di André Breton e Lucio Fontana fondano il mondo intero della burattinaia: il confine del sé e dell’oggetto, del reale e dell’immaginario, lascia il passo a una possibile realtà del sognante e dell’assurdo.
Una madre raccoglie la famiglia intorno alla tavola per la cena, recitando gli assunti della Pop Art come una litania.
Il liberatorio e vivace Fluxus viene enunciato da una coreografa autoritaria, intransigente e dura che detta legge al suo corpo di ballo e maltratta il proprio assistente.
L’Arte concettuale e il Minimalismo passano per gli schermi televisivi del telegiornale dove cronista e corrispondente si alternano nell’enunciare le progettualità, l’idea come arte.
All’interno di una scuola elementare si conclude il percorso delle dodici storie: a occhi nuovi, ancora puri da schemi visivi e comportamentali, una maestra istruisce i piccoli allievi sugli obiettivi del cinema e sull’importanza dell’autenticità.
Julian Rosefeldt nelle sue creazioni fa un uso della fotografia toccante e meticoloso; in Manifesto è compiuta e irreprensibile la scelta delle architetture e dei paesaggi che conducono e orchestrano la storia rappresentata. Alle proiezioni in mostra il Palazzo delle Esposizioni restituisce un carattere immersivo e una percezione uditiva e visiva che le affranca dall’idea di serialità e ne comunica chiaramente il valore d’insieme di ogni singola parte, di ogni singolo enunciato. Nel confronto e nello scontro delle esperienze artistiche e nell’ufficializzazione delle intuizioni e delle riflessioni dei manifesti che hanno segnato e sensibilizzato l’animo artistico del Novecento, si accendono gli interrogativi sull’arte odierna e sulla società in cui si colloca.
Contro chi o contro cosa combatte l’arte oggi? L’artista dalla sua riva cosa trasporta, quale verità svela? Non c’è sconto e non c’è offesa? Il fuoco dell’arte non si è certo spento, benché il numero tredici nella cabala rappresenti la morte, ma nel “mutatis mutandis” della forme conosciute trova nuove conformazioni; non è un rituale stanco e antiquato, ma un proclama vivo e reale che nell’aria perde il suo consistere e afferma il suo esistere complesso e molteplice, materiale e immateriale, ponendo domande ed evidenziando contraddizioni nel suo agire ironico e risoluto.

Nicoletta Provenzano
Nata a Roma, storica dell’arte e curatrice. Affascinata dalle ricerche multidisciplinari e dal dialogo creativo con gli artisti, ha scritto e curato cataloghi e mostre, in collaborazione con professionisti del settore nell’ambito dell’arte contemporanea, del connubio arte-impresa e arte-scienza.