Il 13 luglio 1573 il pittore Paolo Veronese fu chiamato a comparire in qualità di imputato davanti al temutissimo Tribunale dell’Inquisizione di Venezia perché nello stesso anno aveva realizzato, per i domenicani del convento veneziano di San Giovanni e Paolo, un’Ultima Cena talmente insolita da valergli un’accusa di eresia.

Il grande telero del Veronese per il refettorio del suddetto convento doveva sostituire il dipinto di Tiziano, di analogo soggetto, andato distrutto nell’incendio del 1571. Si tratta dell’ultima di una serie di fortunate “Cene”, dipinte dal pittore a partire dalla metà del Cinquecento. L’opera evidenzia gli straordinari raggiungimenti artistici del Veronese, in questo caso capace di far coesistere sapientemente elementi di retorica teatralità con movimentati istanti di frizzante convivialità, all’interno di una cornice architettonica monumentale a tre arcate, al centro della quale si trovano le figure sacre: Cristo e gli apostoli. Proprio tutta questa convivialità e la scenografia altamente spettacolare – popolata da oltre cinquanta comparse, abbigliate con vestiti sgargianti e intente a servire, mangiare, vociare e muoversi, nonché dalla presenza di animali – distraevano il fedele da quello stato di meditazione che la contemplazione dell’Eucarestia richiedeva.
Il Tribunale dell’Inquisizione, ritenuta sconveniente tale interpretazione dell’Ultima cena, sottopose il pittore a un lungo e serrato interrogatorio, durante il quale il dito venne puntato sulla presenza di personaggi estranei, tra i quali alcuni alabardieri «armati alla Todesca vestiti con una lambarda per uno in mano», giustificati dal pittore che immaginò «che passino far qualche officio parendomi conveniente che’l patron della Casa che era grande e richo, secondo che mi è stato detto, dovesse aver tal servitori». Ancora: venne contestata al pittore la presenza di un servo che perde sangue dal naso e di un «buffon con il pappagallo in pugno», posto «per ornamento», e addirittura di «uno, che ha un piron [forchetta], che si cura i denti», precisi indizi – secondo il Tribunale – che si volesse dileggiare il sacramento.


Durante l’interrogatorio, quando venne chiesto al Veronese chi credesse che si trovasse in quella Cena, egli rispose: «Credo che si trovasse Cristo con li suoi Apostoli; ma se nel quadro li avanza spazio io l’adorno di figure, secondo le invenzioni.» Il Veronese difese strenuamente la necessità che ai pittori venisse riconosciuta libertà d’azione nella rappresentazione di soggetti sacri e, tramite le risposte fornite all’incalzare delle domande, riuscì a chiarire il proprio approccio “naturale” alla pittura, alieno da ambiguità dottrinali ma attento piuttosto ad applicare il principio fondamentale della “varietas”, che costituisce uno dei capisaldi dell’espressione artistica moderna. Spiegò, rispondendo a un quesito, quanto fosse importante la propria libertà espressiva: «La comission fu di ornare il quadro secondo mi paresse, il quale è grande, et capace di molte figure». Il quadro – essendo di grandi dimensioni – poteva quindi certamente comprendere molte figure per ornamento, ponendo – chiaramente – quelle più fantasiose all’esterno dello spazio occupato da Cristo, come il pittore affermò.


Non sappiamo in che misura questa autodifesa abbia convinto i giudici ma si è al corrente che la causa si concluse senza alcuna conseguenza negativa per la carriera del celebre artista e con un salomonico accordo: i giudici decisero che la tela sarebbe potuta rimare al suo posto a patto che il pittore entro tre mesi e a proprie spese ne emendasse gli “errori”. Questi pensò bene di riferire l’opera a un altro soggetto evangelico: inserì una scritta divisa sui piedritti che limitavano le balaustrate delle due “scale morte” sopra la data 20 aprile 1573, giorno in cui l’opera era stata effettivamente consegnata. La scritta recita «FECIT D[OMINO] CO[N]VI[VIUM] MAGNU[M] LEVI» (cioè «Levi fece un grande convito per il Signore»), completata sul lato opposto dal riferimento al passo evangelico: Luca, capitolo 5. In tal modo l’Ultima cena diventò il Convito in casa di Levi.

Anna D’Agostino
Classe '93, laureata in Storia dell'Arte con una tesi in Museologia sull'arredamento dell'Ambasciata d'Italia a Varsavia dalla quale è scaturita una pubblicazione in italiano e polacco. Prosegue la ricerca inerente l'arredamento delle Ambasciate d'Italia nel mondo grazie a una collaborazione con la DGABAP del Mibact. É iscritta al Master biennale di II livello "Esperti nelle Attività di Valutazione e di Tutela del Patrimonio Culturale".