In EvidenzaTeatro e DanzaUdire il vedere: curiosità e riflessioni sul teatro alla radio

Giada Oliva23 Gennaio 2022
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La nascita di un nuovo mezzo di comunicazione rappresenta un’opportunità per ogni arte di ridefinire il proprio campo d’azione e la propria identità. Il rapporto che il teatro ha intrattenuto con la radio, dalla sua nascita ai nostri giorni, è un buono spunto per tentare di comprendere se sia possibile un teatro al di fuori dei suo spazi canonici e se in queste condizioni sia lecito parlare ancora di teatro oppure se esso muti forma e trasmigri verso altri approdi artistici.

Iniziamo con un po’ di utili date. Nel 1878 in Svizzera, dal teatro di Bellinzona, si ebbe il primo esperimento di trasmissione per via telefonica di un’opera teatrale, il Don Pasquale di Donizetti, a cui si diede il nome di Teatrophon. Nel 1881 a Parigi questa novità ebbe una vetrina internazionale all’Esposizione Universale dell’Elettricità, durante la quale si offrì ai visitatori la possibilità di sentire in cuffia una commedia. In breve tempo in diverse città europee alcune compagnie telefoniche si dotarono di tale servizio che offrirono dietro pagamento. L’invenzione del telefono contribuì a quella della radio, le cui prime trasmissioni avvennero negli anni ‘20. Il 15 gennaio del 1924 in Inghilterra la BBC mandò in onda il primo radiodramma della storia dal titolo Danger. In Italia invece il teatro entrò ufficialmente in radio il 18 gennaio del 1927 con Venerdì 13, un racconto a tinte fosche di Mario Vugliano, mentre fu solo il 3 novembre del 1929 che andò in onda il primo testo scritto appositamente per la radio, L’anello di Teodosio di Luigi Chiarelli.

A lungo la radio fu assoggettata al teatro, a cui chiese in prestito testi e attori prima di proseguire un percorso indipendente. Gli attori teatrali negli studi radiofonici continuarono a far uso di costumi di scena, tale era la loro abitudine di impersonare visivamente il personaggio. La presenza dell’attore quindi rimase fondamentale sebbene fossero richieste competenze specifiche per valorizzare la voce al microfono e saperne gestire intensità e distanza. La performance radiofonica conservò quell’unicità e irripetibilità proprie del teatro, dato che per il primo ventennio le trasmissioni furono in diretta.

Alcuni teatranti però si sentirono in competizione con il nuovo mezzo a tal punto che compagnie di giro vietarono per contratto ai propri attori di partecipare alle trasmissioni radiofoniche. Numerosi detrattori parlarono a tal proposito di mutilazione dell’attore o di teatro per ciechi con evidente riferimento al venir meno dell’elemento visivo in radio. Ci fu però chi, in tale palese divergenza tra radio e teatro, colse una potenzialità come i primi ascoltatori di Venerdì 13 che, terrorizzati dalla performance, ne apprezzarono il maggiore realismo proprio per l’assenza di convenzioni visive come comparse o scene. In radio i cambi di spazio e di tempo potevano essere risolti facilmente con una frase facendo leva così sulla capacità immaginifica dell’ascoltatore che era chiamato a completare da sé le parti mancanti. L’udito, il vero protagonista in radio, che in quanto senso non selettivo non permette di decidere su cosa soffermarsi, è l’unico a essere in grado di descrivere il vuoto. Il silenzio difatti in radio ha un peso diverso che in teatro, in cui l’attore può colmarlo con espressioni e gesti. In radio il silenzio fagocita l’intera storia, decretandone la scomparsa e offrendo così reale esperienza del vuoto senza alcun appiglio di salvezza.

Veniamo ora al punto critico della questione: il pubblico, o meglio, la sua assenza. La mancata condivisione di uno stesso spazio tra attori e ascoltatori è per molti lo snodo in cui si gioca l’identità del teatro in radio. La mancanza di un’interazione tra attore e pubblico può inficiare la performance radiofonica a tal punto da privarla della sua natura teatrale? Ruggero Ruggeri, noto grande attore, non ha dubbi e così sentenzia negli anni ‘20: «Se togliete il pubblico all’attore o l’attore al pubblico, non avrete più teatro». L’invisibilità e la dislocazione dell’ascoltatore non permettono uno scambio empatico con l’attore e privano l’ascoltatore della possibilità di essere influenzato dalle reazioni del vicino di posto. L’esperienza così diviene personale e vissuta in solitudine o in una cerchia ristretta. Il teatro inoltre si rivolge a un gruppo di persone paganti che hanno scelto di varcare la soglia dell’edificio, la radio al singolo individuo che usufruisce gratuitamente del servizio.

Un buon punto di svolta ci è fornito dal pensiero di un teatrante contemporaneo, Claudio Morganti, che scrive: «Il teatro è una questione di orecchio». Morganti chiarisce come il compito del teatro non sia di mostrare ma di evocare, favorire dunque la nascita di visioni. Ecco quindi che anche la radio può far vedere una voce nel momento in cui bada a produrre suoni non calibrati in base al significato ma a quello che vuole far visualizzare nella mente dello spettatore. Rinunciando a competere con mezzi dotati di maggiore spettacolarità, tecnologia e capacità di realismo come può essere il cinema, teatro e radio possono incontrarsi nel comune rapporto con l’invisibile, senza avere quindi l’ambizione di descrivere la realtà ma di aprire squarci su un’altra dimensione, uno spazio profondo fatto di epifanie, simboli, invenzioni e visioni.

Giada Oliva

Romana, classe '85, laureata al Dams in Storia del teatro italiano. Ha studiato per diversi anni teatro e danza contemporanea. Particolarmente curiosa, ama essere una cacciatrice di esperienze e di nuovi punti di vista.