LetteraturaPrimo PianoTucidide e il carattere conservativo della scrittura

Adele Porzia30 Giugno 2022
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Raymond Weil, uno studioso esperto di Tucidide, in un saggio che è molto importante ancora adesso (nonostante gli anni trascorsi) notava che questo storico ateniese di fondamentale importanza, nel corso delle Storie (opera altrimenti conosciuta come La Guerra del Peloponneso), dopo una serie di dialoghi iniziali presenti nei primi libri, preferisse passare alle lettere e ai trattati, ai documenti in forma scritta, cui aveva accesso. E, con questo gesto, con questo cambio di rotta, offriva prove tangibili delle vicende di cui stava trattando, conferendo alla narrazione una validità storica che Erodoto, suo predecessore, non era riuscito a garantire nella sua opera.

La ragione di questa decisione di Tucidide risiede proprio nell’importanza che si inizia ad attribuire alla scrittura, in un secolo ancora orale, in cui si cominciava a individuare una grande opportunità nel carattere permanente e conservativo della forma scritta. E Tucidide ha il merito di averne compreso pienamente il senso prima dei suoi predecessori. Coesistendo oralità e scrittura, ad avere assai più peso è ciò che rimane cristallizzato nel tempo; nella narrazione delle Guerre Persiane occorreva, perciò, offrire anche testimonianze scritte, perché nessuno poi rimproverasse lo storico di falsità.

A Tucidide interessa la verità. Non desidera abbellirla o ritoccarla. Non vuole amplificarne il lato favolistico. Le velleità letterarie le lasciava ai poeti o ai drammaturgi. E il genere storico, così, è nato. Non che Erodoto non conducesse un’indagine o una ricerca, che sono i due termini con cui potremmo tradurre dal greco “historía”, ma era ancora un genere embrionale, destinato a letture pubbliche e quindi a un pubblico di ascoltatori. Tucidide, invece, scrive per dei lettori. Il suo è un libro pensato per la lettura soggettiva e solipsistica, non per la declamazione. Lo storico ateniese si fa, quindi, simbolo di un cambiamento, di una fase preziosissima di transazione.

E precisamente vi è un episodio, narrato dallo stesso Tucidide nel libro VII, in cui Nicia, il comandante ateniese, per domandare aiuto alla madrepatria – mentre a Siracusa si sta verificando la disfatta – non manda un messaggero, ma una lettera. O, meglio, non manda un uomo a parlare, ma lascia che sia una lettera scritta a farlo per lui. Il messaggero era un caposaldo, un’icona della tradizione orale, il portatore di verità per eccellenza. Eppure, Nicia preferisce affidarsi alla forma scritta, perché la ritiene certamente più sicura (il messaggero poteva pur dimenticarsi qualche passaggio, dopo tutti quei chilometri di corsa a piedi e a cavallo), ma anche più efficace.

Faceva certamente più scena che il messaggero leggesse la lettera scritta da Nicia in persona: ciò avrebbe persuaso l’”intellighenzia” ateniese a soccorrere i compaesani nel minor tempo possibile. Nicia, però, così facendo, aveva dubitato del messaggero e, quindi, criticato l’intera tradizione orale su cui ben si poggiava una tradizione millenaria. Tuttavia, il comandante non poteva permettere che, in un momento così delicato, qualche messaggero peccasse di superficialità o di disattenzione e mancasse di dipingere la disastrosa condizione in cui versava l’esercito greco. Solo una lettera, quindi, avrebbe potuto salvare lui e l’intera situazione.

Il passaggio fondamentale che abbiamo appena descritto è così raccontato da Tucidide (qui riportato nella traduzione di Claudio Moreschini):

 

«Nicia, accortosi di ciò e visto che di giorno in giorno crescevano le forze dei nemici e le sue difficoltà, sebbene anche altre volte avesse riferito agli Ateniesi punto per punto ciascun avvenimento, più che mai allora si affrettò a mandare un messaggio, pensando di trovarsi in una brutta situazione e dicendo che avrebbero perso ogni possibilità di scampo se non li avessero richiamati al più presto o se non avessero inviato loro un altro contingente numeroso. Ma, temendo che gli inviati o per incapacità di parlare o per dimenticanza o per dire cose che avrebbero fatto piacere alla folla, non avrebbero riferito il vero, scrisse una lettera, convinto che soprattutto in questo modo gli Ateniesi avrebbero conosciuto il suo pensiero non oscurato dalle parole del messo e avrebbero preso una decisione su una realtà effettiva. E gli inviati partirono portando una lettera che Nicia aveva inviato e informati di quanto dovevano dire, mentre questi prendeva cura dell’accampamento più mediante un’assidua sorveglianza che mediante l’affrontare volontariamente pericoli»

 

Il primo libro delle Storie tucididee conteneva certo molti dialoghi, ma iniziavano a comparire anche delle lettere. Un dato piuttosto importante, perché Temistocle e Serse parlavano attraverso queste lettere, mantenendo segreto l’argomento di conversazione. La lettera è infatti, per sua natura, riservata e sfugge facilmente a occhi fin troppo curiosi o al chiacchiericcio di qualche messaggero. Eppure, esse sono anche un efficacie metodo persuasivo, un modo per «esercitare anche sui regali interlocutori persiani una efficace opera di convinzione», scrive Oddone Longo in Tecniche della comunicazione nella Grecia Antica, libro particolarmente brillante. Sono rapporti epistolari anche quelli che si sviluppano nel resto delle Storie, a indicare come le relazioni tra i potenti stessero mutando e, insieme a loro, la concezione della scrittura. A essere decretato era il fondamentale passaggio dalla parola aleatoria a quella permanente.

Adele Porzia

Nata in provincia di Bari, in quel del ’94, si è laureata in Filologia Classica e ha proseguito i suoi studi in Scienze dello Spettacolo. Giornalista pubblicista, ha una smodata passione per tutto quello che riguarda letteratura, teatro e cinema, tanto che non cessa mai di studiarli e approfondirli.