LetteraturaPrimo PianoTra solitudine e sfiducia nell’uomo: Giacomo Leopardi e la «guerra aperta tra gl’individui»

Adele Porzia20 Maggio 2021
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Spesso la critica è costretta a semplificare il pensiero di uno scrittore. Certamente, per renderlo fruibile e comprensibile a tutti, ma a volte provocando l’effetto indesiderato di non farlo conoscere interamente, oscurando aspetti biografici che farebbero cambiare opinione su di lui. Il che non è sempre un male, perché toglie quell’alone di grandezza a personaggi da un lato straordinari, ma che dall’altro sono comunque semplici esseri umani, dotati di parola e di pensiero, ossa e carne, capaci sì di riflessioni profonde e ineffabili, ma comunque caratterizzati da limiti comuni a qualunque persona. Giacomo Leopardi è uno di questi.

Ad ogni modo, è bene specificarlo, stiamo parlando di un genio. E non è un termine che usiamo a sproposito. Essere geni significa innanzitutto saper fare cose poco comuni, avere capacità fuori dall’ordinario e, in virtù di queste, riuscire a raggiungere traguardi incredibili. Leopardi, nato a Recanati, aveva da subito mostrato delle doti tanto straordinarie da indurre il padre, il Conte Monaldo, a prendere il figlio sotto la sua ala e a trattenerlo in biblioteca. Giacomo doveva studiare, fare il filologo, lo studioso, lo scienziato. Nulla gli pareva impossibile, perché aveva una mente agilissima.

Eppure, che fosse estremamente intelligente è una delle prime cose che si studiano di Leopardi; tanto si parla della sua vita infelicissima, delle sue malformazioni fisiche e del suo pessimismo storico e cosmico, su cui tanto si è scritto e si continua a scrivere, arrivando a trattare questo nostro Giacomo come un povero e infelice relitto, disprezzato dai contemporanei e ostacolato dai suoi stessi familiari. Si studia quanto fossero oppressivi i genitori, il padre in particolare, ma non si racconta che quella cara Adelaide Antici – ben consapevole delle incredibili abilità del figlio – vendette tutti i suoi gioielli e ori, perché il suo genio di 12 anni potesse pubblicare la sua opera di astronomia. Si mira, insomma, a dare una certa immagine – eccessivamente semplificata – di Leopardi e dei suoi familiari.

Su una cosa non si discute: Giacomo si sentiva morire a Recanati. Non si sentiva capito, compreso, apprezzato. Era convinto che i suoi concittadini lo odiassero, lo invidiassero e non comprendessero il genio che avevano di fronte. Li vedeva cattivi e corrotti, poco propensi a mettersi in discussione, egoisti oltre ogni misura. Scrive nello Zibaldone che ogni cittadino gareggiava per soddisfare «i propri vantaggi reali» e in questa gara «si superano tutti i riguardi, l’uno toglie la preda dalla bocca e dalle unghie dell’altro; gl’individui di quella che si chiama società, sono ciascuno in guerra […] aperta con ciascun altro, e con tutti insieme». Vedeva in Monaldo, suo padre, il ritratto di quell’ambiente povero di mente e di spirito, nonché il prodotto di un modo di pensare gretto e ostile, poiché il padre gli negava i mezzi economici per poter vivere altrove liberamente.

Leopardi inizia a provare sfiducia nei confronti della dimensione politica, negando che fosse possibile vivere in una società giusta, proprio a causa di quell’egoismo personale che l’avvelenava. Non la pensa come Jean Jacques Rousseau, non crede che degli individui possano far crescere una società, sacrificando il proprio bene personale e mettendo al primo posto il bene comune. Non crede nel principio della volontà generale: «Gl’interessi, o le opinioni che ciascuno ha sopra i suoi vantaggi […] sono infinite e diversissime. Quindi le forze di ciascuno non possono cospirare ad un solo fine». E continua scrivendo che «non c’è ragione, non è possibile né umano che altri sacrifichi un suo minimo vantaggio al bene altrui».

Questi pensieri tradiscono i limiti di un giovane Leopardi, fermo ai suoi studi classici, perché Giacomo ritiene che, durante la Repubblica Romana e l’Impero Romano, si pensasse esclusivamente al bene comune e alla Patria, non ognuno a sé. Il genio di Recanati, come spesso è accaduto e continua ad accadere, idealizza la società romana dell’epoca, rovinata – a parer suo – dal Cristianesimo. Pensiero che, probabilmente, nasce da una malriposta forma di ribellione del poeta verso le radici culturali cattoliche della propria famiglia.

Leopardi si sente un morto che cammina, un uomo di lettere e d’ingegno che soffre nella «sepoltura» di Recanati: «Son certo di non poter mai conseguire neppure quella fama a cui si sollevano i più piccoli scrittorelli, e che non si ottiene se non per mezzo di conoscenze, e di una vita menata in mezzo al mondo, e non del tutto fuori». Scrive e riscrive continuamente di quella sua piccola e asfissiante Recanati e sogna Roma, l’ambiente di Roma, illudendosi che fosse simile alla Roma antica, una società più evoluta, capace di riconoscere il suo genio. Nel 1822 si sottrae alla società recanatese ed entra in quella romana e la delusione che prova, interfacciandosi con questa realtà, è immensa. Nella grandezza territoriale di Roma ritrova una solitudine agghiacciante, che aumenta le distanze tra persona e persona. Vede «tanti spazi gittati fra gli uomini, invece d’esser spazi che contengano uomini».

A Roma trova indifferenza, «quell’orribile passione, anzi spassione», una totale noncuranza verso il suo talento poetico. Cosa sperava di trovare Leopardi nella Capitale? Fama, comprensione, affetto? L’amicizia degli altri intellettuali, per lui ignoranti e superficiali? Calore e qualcuno che credesse in lui? Quel che è certo, è che trovò un ambiente chiuso, freddo, asettico, una prigione a cielo aperto, ove tutto si disperdeva nella malattia della noncuranza.

Adele Porzia

Nata in provincia di Bari, in quel del ’94, si è laureata in Filologia Classica e ha proseguito i suoi studi in Scienze dello Spettacolo. Giornalista pubblicista, ha una smodata passione per tutto quello che riguarda letteratura, teatro e cinema, tanto che non cessa mai di studiarli e approfondirli.