LetteraturaPrimo PianoThomas Gray, il poeta preromantico che non conobbe l’amore

Lucia Cambria25 Aprile 2022
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Il Settecento fu il secolo preparatore, dal punto di vista letterario, di molte tendenze poetiche e artistiche che si sarebbero affermate nel secolo successivo. La poesia di inizio XVIII secolo ebbe tra i propri protagonisti soprattutto il poeta Alexander Pope, tanto che si parla del cosiddetto “neoclassicismo popiano”, ovvero di un poetare intellettualistico e quasi schiavo delle regole e del decoro. La seconda parte del secolo vide invece un mutare di questo atteggiamento attraverso lo sviluppo di una serie di caratteristiche che oggi siamo soliti considerare parte del “pre-romanticismo”. La figura preminente in questa fase – che potremmo definire “transitoria” – fu Thomas Gray. Egli aveva rovesciato la tendenza settecentesca del costruire una “poesia prosastica”, conferendo ai suoi versi uno stile specifico. Tale operazione sarebbe stata lodata – un secolo dopo – da Matthew Arnold, poeta e critico letterario, secondo il quale grazie a Gray la letteratura inglese ritrovò quella “lingua poetica” che si era persa dopo Jon Milton – l’autore del Paradiso perduto – e che avrebbe poi recuperato pienamente nel XIX secolo, attraverso il Romanticismo e il Vittorianesimo.

Nato a Cornhill nel 1716, Gray fu il quinto di dodici figli e l’unico a raggiungere l’età adulta. A Eton, che frequentò dal 1725 al 1734, conobbe il poeta Richard West e Horace Walpole, che sarebbe poi divenuto celebre per il romanzo gotico The Castle of Otranto. Con lui – nel 1739, dopo aver abbandonato l’università di Cambridge – salpò da Dover per un tour continentale: i due si separarono in Italia e Gray continuò il proprio viaggio da solo, tornando a Londra dopo quattro mesi.

Gray passò gran parte della propria esistenza come studioso di Cambridge e sebbene scrisse poco (la sua intera produzione poetica conta meno di mille versi), nel 1757 gli venne proposto il titolo di Poeta Laureato, che però rifiutò. Egli era sempre molto critico nei confronti di se stesso, tanto che furono solo tredici le poesie pubblicate da lui durante la propria esistenza. Nel 1768 divenne professore di storia moderna a Cambridge ma non tenne mai lezioni e non pubblicò mai nulla. L’evento più importante dei suoi ultimi anni fu l’intensa amicizia con un giovane studente svizzero, Karl Victor von Bonstetten. Nel luglio del 1771 Gray si ammalò e una settimana dopo morì. Le parole che meglio possono descrivere questo schivo personaggio si leggono nei Souvenirs di Bonstetten, del 1832: «Io credo che la chiave del mistero stia nel fatto che Gray non amò mai; da ciò ne scaturì una povertà del cuore in contrasto con la sua profonda e ardente immaginazione che, invece di dargli felicità, fu per lui un tormento».

«Gray non amò mai»: questo particolare contribuisce a ingrigire l’alone costruito attorno a uno dei più celebri “Graveyard poets” (“poeti cimiteriali”), ovvero quel gruppo di poeti che erano soliti scrivere sulla morte, sul sonno e sulla notte, riempiendo le loro opere anche di dettagli piuttosto macabri. E infatti la poesia più celebre di Gray fu proprio Elegy Written in a Country Churchyard (Elegia composta in un cimitero di campagna). Ancora più significativo è il fatto che la sua vera attività poetica scaturì da un evento luttuoso, ovvero dalla morte di Richard West nel 1742. Di questo stesso anno è infatti Sonnet on the Death of Richard West. La malinconia che si impossessa del poeta in occasione della morte dell’amico è evidente fin dai primi versi, in cui considera vane tutte le cose che lo circondano:

 

«Invano mi sorride la luce del Mattino,
E il rosseggiante Febo solleva il suo fuoco dorato;
Invano gli uccelli si uniscono al loro amoroso canto;
O i briosi campi si coprono di verde;
Queste orecchie, ahimè! Per altre note soffrono,
Altro richiedono questi occhi;
Il mio solitario tormento non tocca altri cuori;
E nel mio petto spirano le imperfette gioie»

 

Tutto è vano per il poeta, tutto il dolore è concentrato sul suo cuore: la gioia si fa imperfetta, perché è l’ultimo sentimento che si addice a quel petto. Solo la malinconia alberga in lui. La natura porta gioia soltanto a coloro che sono già felici:

 

«Eppure il Mattino esorta la folla a gioire,
E porta piacere nuovo agli uomini felici;
I campi donano tutto il loro consueto tributo
Per tenere caldi i cari che gli uccelli lamentano»

 

Il poeta rimane solo col suo dolore, senza via di uscita:

 

«Io mi addoloro inutilmente per colui che non può udire,
E piango di più perché il mio pianto è vano»

Lucia Cambria

Siciliana, laureata in Lingue e letterature straniere e in Lingue moderne, letterature e traduzione. Particolare predilezione per la poesia romantica inglese e per la comparatistica. Traduttrice di prosa e versi, nel 2020 ha trasposto in italiano per Arbor Sapientiae il romanzo "L’ultimo uomo" di Mary Shelley.