Nel 1798 vennero pubblicate le Lyrical Ballads, una collezione di poesie scritte da Samuel Taylor Coleridge e William Wordsworth. Quest’opera è considerata dagli studiosi una pietra miliare nella storia della letteratura britannica e, in generale, europea, poiché costituisce un nitido segnale della nascita del Romanticismo inglese. La raccolta include alcune tra le più famose poesie composte dai due poeti: Rime of the Ancient Mariner (La ballata del vecchio marinaio) di Coleridge e Tintern Abbey di Wordsworth.
La prefazione alla seconda edizione della collezione lirica, pubblicata nel 1800, è stata scritta da Wordsworth e contiene una definizione di poesia, la quale è descritta come un «flusso spontaneo di sentimenti potenti». Il poeta, insomma, espone qui una teoria molto importante: il linguaggio usato in poesia deve essere molto simile a quello realmente usato dagli uomini. E per realmente si intende il linguaggio adoperato nella vita di tutti i giorni.
Non solo il linguaggio, ma anche i temi si “popolarizzano”, finendo per esplorare quell’assopito mondo leggendario che fu parte del cosiddetto “Medieval revival” del periodo romantico. E proprio nelle Lyrical Ballads – e lo si nota già dal titolo – si trovano queste composizioni poetiche le cui dinamiche sembrano provenire da un non ben precisato passato. Si sa solo che è arcano e pieno di misteri irrisolti, oltreché di particolari soprannaturali.
Una di queste è The Thorn (Il biancospino), una ballata composta sotto forma di monologo drammatico da William Wordsworth. Scritta nel 1798, l’ispirazione per questi versi proviene da un luogo in particolare (Quantock Hill, nel Somerset), dove il poeta aveva osservato un cespuglio di biancospino. Come le altre poesie della raccolta, anche questa rivela in maniera particolarmente vivida la personalità di colui che parla. In The Thorn, infatti, il narratore si rivolge direttamente al lettore per svelare tutti i particolari della storia di una donna sedotta e poi abbandonata dal suo amato con un bambino in grembo.
La poesia inizia con la descrizione della collina sulla quale si trova il biancospino, che sembra essere anche il luogo di sepoltura del bambino. Lì si reca spesso Martha Ray, la madre dell’infante scomparso e, insieme, la sua presunta assassina. I residenti della cittadina si sono espressi in vari giudizi, ma la maggior parte sembra convergere verso il colpevolizzare quella donna: si dice infatti che abbia impiccato il neonato a uno di quei rami o che lo abbia annegato in un laghetto poco distante. La narrazione si riempie di particolari favolosi, come ad esempio il fatto che il muschio su quella collina sia rosso a causa del sangue del bambino gocciolato sul terreno oppure che se si osserva la superficie dello stagno si è in grado di distinguere il volto e gli occhi dell’infante.
La donna viene quindi considerata colpevole e si decide per la sua condanna. Proprio nel momento in cui viene presa questa decisione, il terreno attorno alla collina inizia a tremare. Questo terremoto è visto dagli abitanti del paese come un segno: la donna è un’assassina e lì giacciono le ossa del bambino. Esse non vengono però mai ritrovate e Martha Ray continua a salire su quella collina piangendo se stessa e la sua sorte.
Come si nota, il narratore non tira le conclusioni della vicenda e non fornisce alcuna certezza: non si capisce, insomma, se la donna sia o meno un’infanticida. Lascia decidere al lettore se quel segno soprannaturale possa essere interpretato come un’effettiva testimonianza della colpevolezza di Martha. Non sembra nemmeno prestarsi a credere agli altri dettagli che aleggiano attorno alla vicenda, ovvero alle voci che circolano sul muschio e sul laghetto di quella collina.
Naturalmente è affascinato da quelle superstizioni locali, le quali hanno trasformato una storia di cronaca in un macabro racconto dell’orrore. L’ambientazione gotica è alimentata anche dallo scenario sul quale si staglia la narrazione: la tempesta, il vento, le trombe d’aria. Tutti fenomeni, questi, seguiti dai lamenti di Martha («Oh misery! Oh misery!»). Gli agenti atmosferici corrispondono allo stato d’animo della donna e, anzi, sembra quasi che questo li provochi, come se lei fosse una sorta di strega in grado di manovrare la natura a proprio piacimento.
Sebbene il parere del narratore non sia ben nitido, un particolare ci fa pensare quale possa essere il suo giudizio; infatti egli afferma:
«Ma uccidere così un bambino appena nato,
non credo l’avrebbe potuto!»
Non ci dice se la donna sia per lui colpevole o meno, ma si appella alla morale, al buonsenso e alla pietà: un essere umano, soprattutto una madre, non farebbe mai una cosa del genere. D’altro canto, ci informa di tanti dettagli macabri e prodigiosi: quella terra ha davvero tremato. E questa, in fondo, è una ballata romantica: non esiste confine tra la verità e il favoloso.

Lucia Cambria
Siciliana, laureata in Lingue e letterature straniere e in Lingue moderne, letterature e traduzione. Particolare predilezione per la poesia romantica inglese e per la comparatistica. Traduttrice di prosa e versi, nel 2020 ha trasposto in italiano per Arbor Sapientiae il romanzo "L’ultimo uomo" di Mary Shelley.