CinemaPrimo Piano“The Irishman”: il lungo addio al gangster movie di Martin Scorsese

Nadia Pannone25 Ottobre 2019
https://lacittaimmaginaria.com/wp-content/uploads/2019/10/asfefewfewfew.jpg

Dopo una tribolata fase di produzione (appianata dalla piattaforma Netflix, che è arrivata a fornire un budget di 160 milioni di euro), finalmente il 21 ottobre ha visto la luce in Italia l’ultima fatica di uno dei più grandi registi degli ultimi cinquant’anni: The Irishman di Martin Scorsese, presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma.

Scorsese ha il pregio di essere stato l’unico tra i grandi autori americani della New Hollywood a mantenere un’elevata e costante operatività e – al contempo – un’indiscussa qualità nel corso degli anni, rinnovandosi di continuo e cimentandosi nei generi più disparati. Gli incassi non sempre lo hanno premiato – basti pensare al precedente Silence (2016) – ma il valore del suo lavoro è sempre stato fuori discussione, così come la sua voglia di mettersi in gioco e di mostrare di avere ancora qualcosa da dire, nonostante l’età e il suo importante passato, costellato da una sfilza di capolavori disseminati tra gli anni Settanta e i Novanta. Questa volta, tuttavia, l’attesa era spasmodica e le aspettative altissime: dopo ben 24 anni da Casinò, infatti, Scorsese tornava a rimaneggiare il genere che nella sua opera aveva trovato la realizzazione ultima e che, proprio dopo Casinò – tralasciando il bellissimo Donnie Brasco di Mike Newell (1997) – non aveva più avuto grandi slanci: il gangster (nello specifico, quello incentrato sulla mafia italo-americana). Inoltre, ad aumentare le aspettative, la notizia che avrebbe riunito ancora una volta la coppia simbolo del suo cinema: quella composta da Robert De Niro e Joe Pesci, aggiungendo ai due nomi quelli di Hervey Keitel e di un altro mostro sacro, volto di alcuni fra i gangster più memorabili della storia del cinema: Al Pacino, inspiegabilmente qui alla sua prima collaborazione con Scorsese.

Con simili premesse, si prospettavano unicamente due possibili risvolti: o che il film fosse una copia sbiadita – ricalcata sui capolavori degli anni d’oro – o che Scorsese riuscisse a compiere un piccolo miracolo, facendo sfoggio del suo stile registico inimitabile e servendosi delle interpretazioni di tre dei più grandi attori di sempre, aggiungendo tuttavia uno sguardo nuovo e – allo stesso tempo – saggio, inevitabilmente consequenziale alla sua età, alla sua esperienza e al suo desiderio di tirare le fila di un tipo cinema che è stato grande e forse non lo è più, ma che poteva tornare a esserlo soltanto grazie a lui e a quei volti che hanno contribuito a renderlo tale. Il nuovo attraverso il vecchio. In virtù di questo, la scelta di ringiovanire i protagonisti tramite la tecnica del “de-aging” appare quasi necessaria: il volto di tre attori più giovani non avrebbe sortito lo stesso effetto. Questo è, prima di tutto, un film sull’amicizia e la sua intensità non sarebbe arrivata in modo altrettanto potente se Scorsese non avesse scelto proprio i suoi amici di sempre per accompagnarlo in quest’avventura. È un film in cui due ringiovaniti De Niro e Pacino si danno un abbraccio e si dicono ti voglio bene: quell’abbraccio non è solo il simbolo dell’affetto tra Frank Sheeran e Jimmy Hoffa (i personaggi rispettivamente interpretati), ma anche quello di un cinema viscerale, fatto di amore, morte, violenza e sacralità, che nel profondo del cuore sentiamo oramai inarrivabile.

The Irishman è un’ideale e perfetta continuazione degli altri tre mafia movies di Scorsese: Mean Streets (1973), Quei bravi ragazzi (Goodfellas, 1990) e Casinò (1995). Partito dalle vicende dei piccoli delinquenti dei bassifondi di Little Italy, passando per le intricate peripezie dei boss di New York (prima) e Las Vegas (dopo), Scorsese e lo sceneggiatore Steven Zaillian prendono spunto dal romanzo di Charles Brandt L’Irlandese. Ho ucciso Jimmy Hoffa (I Heard You Paint Houses, 2004) per tessere magistralmente una fitta tela di relazioni tra malavitosi; ognuno perfettamente delineato nel proprio microcosmo (pur chiamandosi «quasi tutti Tony»), avvalendosi di alcune teorie complottistiche che vedevano il successo e il relativo declino di figure importanti come Jimmy Hoffa – celebre leader del sindacato dei trasportatori, misteriosamente scomparso nel 1975 – e degli stessi Kennedy, strettamente legati all’ascesa di alcune famiglie della mafia italo-americana. Il tutto, tenuto insieme da un viaggio in auto con scopi “pacificatori”, intervallato da numerose “pause-sigaretta” a fungere da pretesto per rimembrare le tappe salienti di una vita di successi e violenze, sentimenti e sconfitte, giunta ormai a un punto di svolta.

A narrarcelo è l’irlandese Frank Sheeran. Attraverso i suoi occhi, ormai stanchi e nostalgici, vediamo profilarsi alcuni tra gli eventi che segnarono per sempre la storia della politica americana, e che qui fanno da sfondo al suo vissuto e a un’epopea criminale che racchiude un lasso di tempo di circa 40 anni. Assistiamo alla sua ascesa: da trasportatore di carni e veterano della seconda guerra mondiale a “imbianchino”. Ovviamente, il suo pennello è la pistola e le pareti non sono dipinte di bianco ma di rosso del sangue delle sue vittime. Un lavoro che gli riesce così bene da farlo entrare presto nelle grazie del boss mafioso Russel Bufalino (Joe Pesci) e, tramite quest’ultimo, in quelle del celeberrimo Jimmy Hoffa, con il quale instaura un’intima amicizia. Ma se abbiamo imparato qualcosa dai film sui gangster è che l’amicizia è un sentimento pericoloso e complesso: per quanto esso possa essere sincero, non sarà mai un motivo valido per vivere né, tanto meno, per morire. Sembra accorgersene Peggy, una delle figlie di Frank, che scruta con sospetto l’ambiente che la circonda e proprio non riesce a fidarsi dei sorrisi del padre che troppo spesso celano atti di violenza brutale, né della gentilezza di Russel, il cui sguardo quieto camuffa la freddezza di qualcuno a cui basta pronunciare poche parole – «it is what it is» – per decretare la vita o la morte di qualcuno.

Se nella prima parte del film assistiamo a quelli che sembrerebbero i vecchi fasti di Quei bravi ragazzi (la voce fuori campo che ci introduce la bizzarra fauna della mafia italo-americana, il montaggio veloce, i pezzi swing), ci accorgiamo presto che, in realtà, c’è una netta differenza tra le due opere: i personaggi non sono sfacciati come i vecchi “goodfellas”, bensì riflessivi; non sono dipendenti da alcol e droghe, ma hanno la fissazione del gelato e della puntualità. Il crimine non viene esaltato, la violenza non è spettacolarizzata; viene mostrata semplicemente per quello che è: una spirale inarrestabile e opprimente, fatta di gesti prestabiliti, regole infrangibili e – in fin dei conti – vane. A prescindere da quale impero si sia costruito in vita, tutti condividono il medesimo destino: nella peggiore delle ipotesi, la morte per assassinio; nella migliore, quella per vecchiaia. Alla frenesia si sostituisce la meditazione; all’entusiasmo, la rassegnazione. È proprio su questo aspetto che Scorsese insiste nella seconda parte della pellicola, dando il giusto spazio ai tre grandi interpreti e ai loro vincoli, fino alla rappresentazione del loro inesorabile crepuscolo.

Pesci torna sulla scena al richiamo del suo vecchio amico Scorsese e dà vita a un personaggio estremamente riflessivo, inquietante nel suo freddo ruolo da calcolatore: esattamente l’opposto degli indimenticabili Tommy DeVito e Nicky Santoro, che erano caratterizzati da irrefrenabile violenza e imprevedibilità. Inevitabile, comunque, pensare alla “testa calda” Tommy, quando Bufalino parla italiano con Frank, e assapora la bontà di un pezzo di pane inzuppato nel vino. Pacino, invece, regala un’altra delle sue interpretazioni sopra le righe, che hanno sempre tradito la passione dell’attore per il teatro e che hanno trovato la massima espressione nei suoi ruoli più esuberanti, da Tony Montana a Vincent Hanna, passando per Big Boy. Nel suo sguardo, tuttavia, ritroviamo spesso anche la glacialità di Michael Corleone e, proprio come quest’ultimo, a un certo punto si siederà a osservare il lago, in attesa che l’ordine venga ristabilito. De Niro, così come il suo personaggio Frank, si trova nel mezzo: una performance, la sua, intimista ed elegante: il Virgilio perfetto a guidarci in una complessa storia di vita e di morte, che arriva ad abbracciare l’intera storia americana della seconda metà del Novecento. Uno sguardo meditativo che si tramuta, nell’ultima parte, in malinconico: De Niro è di nuovo Noodles e, come in C’era una volta in America, rivive con nostalgia il passato, rimugina sulle proprie scelte, ripensa con rammarico alle proprie mancanze, agli affetti traditi, da solo in una casa di riposo con i propri rimorsi e con un’infermiera che non ha idea di chi sia Jimmy Hoffa. Il mondo è cambiato, tutti sono morti, ma Frank continua a custodire gelosamente i propri segreti, non riuscendo ad aprirsi nemmeno con un prete in punto di morte: è la consapevolezza di poter proteggere ancora quei segreti, quei ricordi, ad averlo tenuto in vita. Il suo ultimo gesto, nella sua commovente semplicità, è il suo saluto a quel passato, alle decisioni giuste e sbagliate, alle amicizie onorate e tradite. È l’ultimo saluto di Martin Scorsese al gangster e al grande cinema americano.

Nadia Pannone

Basta poco a renderla felice: un buon film, un po' di musica anni Ottanta, una libreria, qualche conversazione stimolante, un lago, delle luci al neon, una piazza deserta e assolata, delle foto vintage, una coperta e un buon caffè.