Nella cultura antica le muse erano le divinità della comunicazione poetica; si riscontrano a partire dalla mitologia greca, citate per la prima volta nella Teogonia di Esiodo. Delle nove muse – figlie di Zeus e Mnemosyne – si sa praticamente tutto, dai loro nomi alle loro caratteristiche, tanto che esse finirono per essere raffigurate ognuna con i propri attributi iconografici, i quali permisero di riconoscerle e differenziarle.
Tuttavia esiste una musa che non compare nella mitologia greca, essendo propriamente romana: si tratta di Tacita, la cosiddetta musa muta. Essa era particolarmente venerata a Roma, come testimonia Plutarco nella Vita di Numa: «Una Musa egli prescrisse ai Romani di venerare in modo particolare e spiccato, quella a cui diede il nome di Tacita, cioè “silenziosa” o la “muta”, la qual cosa sembra essere propria di chi ricorda e onora la riservatezza Pitagorica». L’etimologia del nome Tacita è un sostantivo in –ta, realizzato sul verbo “taceo” che significa “tacere” (Tace-ta = Tacita); questi sostantivi derivati da un verbo implicano normalmente la caratteristica della “attività”, come se si trattasse di veri e propri nomi di azione. Tacita, dunque, è la Musa “che fa tacere” e che impone il silenzio agli esseri umani. Nella cultura romana la scarsa loquacità e la riservatezza erano tenute in gran considerazione ed erano, dunque, dei tratti positivi sia per le donne che per gli uomini; perciò Numa Pompilio, colui che aveva insegnato a venerare Tacita, raccomandava questo culto a tutto il popolo romano.

Questa musa romana ha una triste storia. Ovidio narra nei Fasti di una ninfa di nome Lara (“chiacchierona”), che viveva nel Lazio; essa era molto loquace, tantoché il padre – il fiume Almone – le aveva raccomandato più volte di tenere a freno la lingua, ma lei non ascoltò i consigli paterni e proprio per il suo troppo parlare fu punita da Giove. Ella andò a raccontare a Giunone che il marito aveva delle mire sulla ninfa Giuturna, e a Giuturna che Giove intendeva prenderla con la forza. A questo punto, Giove la punì strappandole la lingua «dato che non ha saputo farne buon uso» e ordinò a Mercurio di accompagnare Lara, diventata ormai muta, alla palude degli inferi (si trattava, infatti, di un luogo “silente”) di cui sarebbe diventata la ninfa protettrice. Ma durante il viaggio Mercurio approfittò di lei e la violentò; la ninfa partorì due gemelli, i Lares, divinità che avevano il compito di proteggere la città e vegliare sui confini. Come dea del silenzio, Lara assunse il nome di Tacita e, come madre dei Lari, venne anche chiamata Acca (proprio perché la lettera h è muta). Ovidio descrive minuziosamente il rituale che ad ella era dedicato in un particolare giorno dell’anno: il 21 febbraio, quando a Roma aveva luogo la festa dei Feralia in cui si celebravano i Manes, gli spiriti dei morti. In questa giornata si recavano offerte alle tombe degli antenati che consistevano nella consegna sopra un vaso di argilla di ghirlande di fiori, spighe di grano, un pizzico di sale, pane imbevuto nel vino e viole sciolte; erano permesse anche offerte supplementari, ma i morti erano placati solo con offerte rituali. I protagonisti e le modalità del rito appartengono all’ambito delle credenze popolari e delle pratiche magiche: una vecchia chiacchierona e ubriacona crea una fattura protettiva con semplici ingredienti quotidiani. La bocca di chi è ostile resterà chiusa come quella della sardina che l’anziana donna incolla con della pece e cuce con un ago. Ovidio,insomma, dal rito passa al mito e racconta la storia di una dea utile a motivare le peculiarità e il ruolo della divinità, la quale presiede al rito che vincola la lingua dei nemici.
Si apprende, dunque, non soltanto che Tacita/Muta si chiamava – in effetti – Lara, ma che questo nome è la lieve deformazione di un nome greco, Lala, la cui etimologia presenta caratteristiche opposte a quelle della dea del silenzio. Per spiegare come una “chiacchierona” diventi “muta” Ovidio inventa una storia di amori divini che potrebbe benissimo essere aggiunta alle sue Metamorfosi e che, effettivamente, presenta vistose analogie con altre storie greche in esse raccontate. Il rituale celebrato in onore di Tacita, quindi, ha lo scopo di “far tacere” le malelingue: ella viene invocata come dea che protegge dal male provocato dal cattivo parlare degli altri.
Come si è detto inizialmente, delle altre muse si sa praticamente tutto ma della musa del silenzio – purtroppo, non si sa quasi nulla, non si conoscono le sue sembianze e forse proprio per la sua riservatezza non fu mai raffigurata. Si è al corrente che i romani per invocare il silenzio mettevano un dito sulle labbra, tanto che interpretarono come “dio del silenzio” l’egizio Arpocrate, la divinità in sembianze di bambino che teneva l’indice sulla bocca. Per chiedere a qualcuno di tacere, però, i romani potevano anche avvicinare alla bocca l’intera mano, ovvero mordersi leggermente il labbro inferiore. Dunque, potremmo immaginare Tacita con un dito o con una mano posta sulla bocca. Resta solo da considerare Tacita una vera e propria musa perché come le muse ispirano i poeti nella propria arte, Tacita ispira gli uomini al silenzio.

Anna D’Agostino
Classe '93, laureata in Storia dell'Arte con una tesi in Museologia sull'arredamento dell'Ambasciata d'Italia a Varsavia dalla quale è scaturita una pubblicazione in italiano e polacco. Prosegue la ricerca inerente l'arredamento delle Ambasciate d'Italia nel mondo grazie a una collaborazione con la DGABAP del Mibact. É iscritta al Master biennale di II livello "Esperti nelle Attività di Valutazione e di Tutela del Patrimonio Culturale".