«Morire / è un’arte, come ogni altra cosa. / E io lo faccio magnificamente».
Questi versi di Lady Lazarus rappresentano un triste progetto, un piano architettato nei dettagli da parte di chi ha sempre considerato la morte un appuntamento imperdibile, troppo prezioso per non essere pensato, ragionato, pianificato. L’11 febbraio del 1963 tutto questo venne messo in atto: questa arte ragionata, che è il morire, trovò la propria rappresentazione in un appartamento di Fitzroy Road, a Londra, luogo in cui anni prima aveva vissuto anche William Butler Yeats, uno dei poeti visionari per eccellenza; e proprio come una visione, che è sogno ma include i tratti della concretezza, Sylvia Plath aveva visto la propria morte. Tale costruzione onirica ebbe luogo nella cucina della casa, un mattino in cui i bambini dormivano ancora e la colazione era stata doviziosamente preparata: Sylvia mise la testa dentro il forno e si abbandonò a quella consunzione tanto bramata.
Nata negli Stati Uniti da genitori tedeschi, Sylvia Plath è stata una poetessa precoce e altrettanto precocemente ha avvertito in sé un senso di morte incombente, tanto da tentare il suicidio già nel 1953. A seguito di questo avvenimento, verrà ricoverata in un istituto psichiatrico; nonostante ciò, riesce a laurearsi e a ottenere una borsa per studiare in Inghilterra. Qui conosce il poeta Ted Hughes, futuro Poet Laureate, che sposa nel 1956 e dal quale ha due figli. Il loro matrimonio finirà nel 1962, pochi mesi prima dell’estremo gesto della poetessa.
Sylvia Plath tentò il suicidio diverse volte nel corso della propria vita, per questo motivo temi legati alla morte sono molto presenti nelle sue composizioni poetiche, in particolar modo in Lady Lazarus, poesia già citata, in cui si fa menzione anche dei suoi tentativi di uccidersi:
L’ho fatto ancora.
Una volta ogni dieci anni
mi riesce
Per la Plath questi non sono solo tentativi, ma prove ben riuscite («mi riesce»), poiché sente di aver attuato davvero quel gesto, di aver davvero fatto di sé un cadavere inerte, pronto però a rialzarsi e a prendere in sé una nuova esistenza, una nuova carne carica ancora più di morte:
Presto, prestissimo la carne
che quella spelonca di tomba s’è mangiata tornerà
a posto su di me
e io sarò una donna sorridente.
Per lei vivere non è un approssimarsi alla morte, ma è già esso stesso un continuo morire, un’attività alla quale ci si abitua, imparando a esercitare quella che è, come detto in questa poesia, una vera e propria arte e persino una “vocazione”. E questa vocazione è un continuo girare attorno a quello stesso attimo, proprio come un girone infernale:
Come lo faccio io, sembra l’inferno.
Come lo faccio io, pare proprio vero.
Insomma, diciamo che ho la vocazione.
La morte leviga e mette a posto, rende perfetto l’imperfettibile, così come scrisse nell’ultima poesia composta prima di morire, Edge (Orlo), in cui è col cessare d’essere che giunge al “compimento”:
Il suo morto
corpo ha il sorriso del compimento
Tutto di quel corpo esanime parla di morire:
i suoi nudi
piedi sembran dire:
abbiamo tanto camminato, è finita.
Come l’ungarettiano «La morte / si sconta / vivendo», Sylvia Plath ha vissuto “come una creatura” pietrificata in una non-vita, esercitando alla fine quella dote unica che è il talento di morire.

Lucia Cambria
Siciliana, laureata in Lingue e letterature straniere e in Lingue moderne, letterature e traduzione. Particolare predilezione per la poesia romantica inglese e per la comparatistica. Traduttrice di prosa e versi, nel 2020 ha trasposto in italiano per Arbor Sapientiae il romanzo "L’ultimo uomo" di Mary Shelley.