LetteraturaPrimo PianoArthur Schopenhauer e l’arte di conoscere se stessi

Ottavia Pojaghi Bettoni16 Febbraio 2021
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«Volere il meno possibile e conoscere il più possibile» è la massima che ha guidato la vita di Arthur Schopenhauer. Lo dice lui, o meglio: lo scrive. I suoi scritti, noi, li ritroveremo su carta stampata quasi per miracolo: questi pensieri non furono infatti mai pubblicati nell’intero arco della sua vita. Preceduto da L’arte di essere felici, saggio nel quale – attraverso cinque massime – impariamo a essere il più felici possibile senza sforzi eccessivi, L’arte di conoscere se stessi – avviato nel 1821 e proseguito poi nei decenni successivi – è la raccolta di appunti segreti del medesimo autore: appunti pungenti, scomodi, illuminanti. Annotazioni autobiografiche, idee, ricordi, citazioni sulla sua concezione di mondo e di individuo.

Ritrovati dopo lunghe ricerche, inizialmente negate dall’esecutore testamentario che, trasgredendo la richiesta dell’autore originario di bruciarle, le nascose (e le ripropose poi, senza citarlo, nella sua personale opera). Diversi quesiti, quelli toccati: l’imbastimento di un sé indipendente, sostenuto da una forte personalità: è, oppure no, ragione di felicità? È possibile «conoscere se stessi», imparando l’arte di essere felici? O non è forse la realizzazione del sé, l’unico presupposto, l’unica strada percorribile per il raggiungimento della stessa? E viceversa: può esistere felicità, senza profonda, compiuta conoscenza di sé? L’autore non fornisce risposte certe. Quello che però è evidente è la sua capacità di non soffrire; sofferenza che lui attribuisce proprio alla stessa dipendenza dall’altro o, in altre parole, al carattere “debole”.

Schopenhauer preconizzava i tempi e fece una scelta: a trent’anni, e fino alla fine dei suoi giorni, scelse la solitudine. Del perché lo fece, ci lascia testimonianza in questi appunti: protezione, un guscio, una bolla, un luogo speciale da dove poter guardare il mondo senza interferenze «poiché aumentando la confidenza diminuisce la riverenza – dato che le nature comuni sono solite disprezzare tutto ciò che non sia per loro difficile da ottenere – bisogna, andando contro la tendenza naturale, applicarsi alla socievolezza con la massima parsimonia». Ma che cos’è il mondo, se non il risultato, il contenitore delle sue interferenze stesse? È possibile sentirsi «nel mondo» senza essere «parte del mondo»? In tutta evidenza, secondo Schopenhauer, sì.

A tratti sprezzante, satirico, freddo: Schopenhauer condanna l’ignoranza, la vacuità della vita mondana a discapito della vita piena, intellettuale, dedita alla conoscenza e al «bisogno di tempo libero per pensare e studiare». Socraticamente, egli condanna la scelta del Male per ignoranza del Bene. Ma se è pur vero che ignorando l’esistenza del Bene, è più facile scivolare nel Male, ci domanderemmo: è, oppure no, tanto garantito il contrario? Non è forse quello, il Male assoluto? E non nasce forse, quello peggiore, da una mente misantropa, dall’intelletto anteposto all’indispensabilità della socievolezza? Conoscere se stessi, quando interpone alla sua finalità, l’astrazione dal reale, è pericoloso. Non del tutto a caso, a differenza di Friedrich Hegel, Schopenhauer rimase ignorato. Ma non per molto. La morte gli diede giustizia, accordandogli la fama di cui non godette in vita.

«Gli uomini con i quali vivo possono essere nulla per me. Perciò il mio massimo godimento nella vita sono i monumenti, i pensieri tramandati di esseri simili a me, che un tempo si sono affannati, come me, tra quelli. La loro lettera morta mi parla in un tono più familiare che non la viva esistenza dei bipedi», scrive Schopenhauer. Gli oggetti, la storia e l’arte: ecco le sue compagnie predilette. Le uniche che non lascerà mai. Il «massimo godimento», le amicizie di una vita con le quali sperimentare quella che definisce la «conoscenza di sé». Compagnie, sì, che però non saranno state un ponte, una scorciatoia, ma una pura necessità, un istinto ancestrale, una vocazione adiuvante; quella che, senza interruzioni, è stata da sempre e per sempre la sua vocazione primaria: raggiungere la più alta delle cime, quella della saggezza.

Ottavia Pojaghi Bettoni

Nata a Stoccarda, ha vissuto per molti anni in Germania, in Svizzera e in Francia. Attualmente si divide tra Roma e Verona. Scrive poesie e racconti.