LetteraturaPrimo PianoTeatro e DanzaFriedrich Schiller, il retore della libertà

Laura Fontanesi12 Febbraio 2020
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Johann Christoph Friedrich von Schiller, pregevole poeta e drammaturgo teutonico, fu animato per tutta la sua breve ma intensa esistenza da un inestinguibile ardore, un’impetuosa devozione nei confronti della libertà, intesa quale rifiuto risoluto di ogni tirannide o sopruso; egli osteggiò con veemenza ogni blanda costrizione morale o vincolo sociale, sostenendo con fervore la libertà individuale.

Tutta la sua opera è intrisa di tali nobili concezioni; egli si scontrò inevitabilmente con l’ottusità di numerosi contemporanei e attirò a sé importanti dissensi. Le sue prime produzioni artistiche (I Masnadieri, 1781; La Congiura di Fiesco, 1783; Intrigo e amore, 1784; Don Carlos, 1787) sono permeate da un fervore tumultuoso; esse anelano a una sorta di anarchica ribellione, alla negazione di ogni legge sociale e morale; egli non ha ancora trovato una compiutezza, il modo per rendere pragmaticamente costruttiva la propria opposizione.

I vividi anni di Weimar, i solerti studi e l’amicizia con Johann Wolfgang von Goethe lo condussero a una rivalutazione ponderata delle sue convinzioni. Le opere tragiche più mature (la trilogia di Wallenstein: Il Campo di Wallenstein, I Piccolomini, La Morte di Wallenstein, 1799; Maria Stuarda, 1800; La Pulzella d’Orléans, 1801; La sposa di Messina o i fratelli nemici, 1803; Guglielmo Tell, 1804; Demetrius, 1805) inneggiano alla medesima libertà, ma la aggiogano, la regolamentano, la incanalano verso un fine superiore: un ordine finalizzato all’armonizzazione e all’educazione dei popoli, capace di liberarli dalle barbarie, dall’oppressione e da ogni forma di «comodo supino adattamento», restituendogli dignità, consapevolezza e onore. Egli si discosta dall’impeto dello “sturm und drang” giovanile, scandagliando e ricercando alacremente l’”ubi consistam” capace di nobilitare gli animi. La sua opera, dunque, inizia a rivestire anche una fondamentale valenza formativa e pedagogica per il pubblico, divenendo imprescindibile strumento consacrato alla “paideia” del popolo tedesco.

Sono anni particolarmente fecondi e produttivi, nonostante l’insorgere di un nuovo e ineludibile nemico, la consunzione. Logorante e implacabile, il morbo lo avrebbe accompagnato sino alla sua prematura scomparsa, a soli 46 anni. Dopo la stesura de I Masnadieri, accorata apologia della libertà pervasa da una manifesta avversione a ogni vincolo sociale, fu costretto – poco più che ventenne – a disertare l’esercito (dopo gli studi di medicina, ottenne un impiego in qualità di ufficiale medico) e abbandonare la propria città natale (Marbach am Neckar, uno dei maggiori centri del Württemberg) ma, nonostante la condanna all’esilio, seguitò a perseverare ostinatamente e stoicamente i propri ideali, dedicandosi interamente alle lettere.

Eccelso creatore di situazioni drammatiche e conflittuali. I suoi personaggi, almeno inizialmente, non risultano tangibili incarnazioni dell’ideale del quale si fanno ambasciatori; spesso soccombono, ma mai inutilmente. Essi paventano una sorta di puerile ingenuità, una purezza, una tensione eroica e un senso dell’onore spesso esasperati, suscitando nell’osservatore una catarsi tragica, sovente conseguente al «sacrificio purificatore» dell’intrepido protagonista. L’ambito umano degli impulsi viene abilmente riscattato grazie alle sue manifestazioni più violente e audaci. Con la maturazione, anche i personaggi schilleriani si evolvono: durante il secondo periodo di attività drammatica si assiste a una trasformazione: gli astratti latori delle prime tragedie mutano in creature concrete. Esemplificativo il duca di Friedland, generalissimo dell’esercito imperiale austriaco, protagonista del Wallenstein, uomo di eccellente levatura morale, obbligato dalla mediocrità circostante a una consapevole ribellione verso le norme precostituite e che, alla fine, cadrà inesorabilmente vittima della sua stessa rivolta. Dopo il trasferimento a Weimar nel 1787, abbandonò il teatro per quasi una decina d’anni; dal 1788 si dedicò alacremente allo studio e all’approfondimento storico, scrivendo anche alcuni trattati: Storia della caduta dei Paesi Bassi (1788) e La Guerra dei trent’anni (1790). Ciò, altresì, si rivelerà utile contributo alle opere della maturità.

Altra importante passione dello Schiller, che lo investì particolarmente in questi anni, fu la filosofia: fervente kantiano, sostenne la necessità di una mediazione estetica tra la sfera sensibile e quella razionale. Autore di importanti saggi inerenti l’argomento, tra cui vanno annoverati: Dell’educazione estetica dell’uomo (1794) e Della poesia ingenua e sentimentale (1795). Egli, in linea con il pensiero di Jean-Jacques Rousseau, criticava aspramente l’eccessiva e rigida concezione razionalistica illuminista, asserendo la necessità di un’educazione estetica, finalizzata a uno sviluppo equilibrato tra lato razionale e sensibile dell’individuo, peculiare alle cosiddette “anime belle”; un’armoniosa giustapposizione, dunque, nella quale il sentimento estetico rivestiva una funzione pedagogica e morale fondamentale.

Descrisse la scissione lacerante che attanagliava l’uomo moderno, conseguenza dell’allontanamento dalla natura, della perdita di un equilibrio tra la realtà e la propria ideale sensibilità. Tale detrimento era intuibile nella differenza riscontrata dall’autore tra “poesia ingenua”, peculiare dell’uomo antico in armonia con la natura circostante (esemplificativa la Grecia arcaica) e “poesia sentimentale”, contraddistinta dall’ intimo e ambasciato tormento umano, da una travagliata ricerca di una labile conciliazione tra l’interiorità e l’oggettività del reale.

Dal 1796 si assistette alla rinascita schilleriana di un rinvigorito estro artistico verso il teatro. L’anno seguente ottenne, inoltre, la cattedra di storia e filosofia presso la rinomata Università di Jena grazie all’intercessione di Goethe. Durante gli anni di formazione artistica e morale, che furono preludio al suo secondo periodo prolifico come tragediografo, affinò lo studio della tragedia greca, acquisendone alcune rilevanti peculiarità per le proprie opere. Innanzitutto reintrodusse l’uso del coro, sostenendone la valenza quale padre spirituale e poetico della tragedia stessa. Secondo il poeta, l’ausilio del coro come compimento a un’opera moderna, l’avrebbe innalzata, «tramutando la banalità moderna nella poesia dell’antichità». Il compito del coro sarebbe stato quello di discostare lo spettatore dall’ambito prosaico dell’azione, approfondendo e svelando «grandi significati della vita e pronunciando sentenze di saggezza».

Particolarmente innovativo è l’uso schilleriano del coro nell’opera La Sposa di Messina. Egli lo divide argutamente in due semicori al fine di sostenere reciprocamente le due parti avverse, elevando – in questo modo – il senso di catastrofe incombente. I personaggi schilleriani maturi anelano e perseverano, anche nell’azione, verso la libertà; una libertà ponderata, di scelta, che si rivela libertà di commettere consapevolmente i propri esiziali errori, accettandone e affrontandone audacemente – con onore e dignità, anche a costo della propria vita – le irremeabili conseguenze. Una vita che merita di essere condotta e sostenuta con coraggio, non una mera sopravvivenza abulica e passiva. Un insigne maestro, che meritò l’epiteto di «Schiller il Roccioso» – conferitogli da Jean Paul – per la sua critica caparbietà, la sua virile e, spesso scomoda, coerenza.

Laura Fontanesi

Archeologa, specializzata in archeologia classica e del Vicino Oriente antico, studiosa di culti antichi e tradizioni funerarie. Affascinata da parole, storie e arcaici numi. Ama scrivere, ascoltare, leggere, approfondire, progettare, creare.