Sardonico, elegante, a volte irriverente. Pungente, con un occhio lucido sulla realtà, profondo, assolutamente originale. Quando i maturandi del 2017 lo trovarono in prima prova, molti si chiesero: «Ma chi è costui?» e questo episodio gli ha gettato senz’altro un fascio di luce che prima aveva solo per alcuni lettori o studiosi di nicchia. Ma Giorgio Caproni, grande poeta del Novecento, va indagato ed esplorato in tutta la sua straordinaria profondità, caratteristica distintiva dell’intera sua produzione. Di seguito riportiamo tre tra le sue poesie più belle.
Per lei voglio rime chiare,
usuali: in -are.
Rime magari vietate,
ma aperte: ventilate.
Rime coi suoni fini
(di mare) dei suoi orecchini.
O che abbiano, coralline,
le tinte delle sue collanine.
Rime che a distanza
(Annina era così schietta)
conservino l’eleganza
povera, ma altrettanto netta.
Rime che non siano labili,
anche se orecchiabili.
Rime non crepuscolari,
ma verdi, elementari.
Poesia dedicata alla madre Anna. Una poesia “verde”, “elementare” che rievoca le caratteristiche caratteriali materne e l’utilizzo di monili: le collane di corallo e il suono degli orecchini, probabilmente fatti di conchiglie.
Il guardacaccia, caccia
od è cacciato. Questa
è una norma sicura.
Al diavolo perciò la paura,
giacché non serve. Tanto,
in tutti noi non resta
sola – che la certezza
già da tempo in me sorta:
chi fabbrica una fortezza
intorno a sé, s’illude
quanto, ogni notte, chi chiude
a doppia mandata la porta.
Lasciatemi perciò uscire.
Questo, io vi volevo dire.
Per quanto siano bui
gli alberi, non corre un rischio
più grande di chi resta, colui
che va a rispondere a un fischio.
Spregiudicato e coraggioso, Caproni invita a mandare al diavolo la paura. Costruirsi intorno una fortezza non serve, come chiudere a doppia mandata la porta di casa: non corre meno rischi chi resta rispetto a chi va rincorrendo un fischio, un richiamo.
Chiudiamo in bellezza con il Congedo del viaggiatore cerimonioso che non ha bisogno di presentazione e commenti (c’è poco da dire e molto da sentire).
Amici, credo che sia
meglio per me cominciare
a tirar giù la valigia.
Anche se non so bene l’ora
d’arrivo, e neppure
conosca quali stazioni
precedano la mia,
sicuri segni mi dicono,
da quanto m’è giunto all’orecchio
di questi luoghi, ch’io
vi dovrò presto lasciare.
Vogliatemi perdonare
quel po’ di disturbo che reco.
Con voi sono stato lieto
dalla partenza, e molto
vi sono grato, credetemi,
per l’ottima compagnia.
Ancora vorrei conversare
a lungo con voi. Ma sia.
Il luogo del trasferimento
lo ignoro. Sento
però che vi dovrò ricordare
spesso, nella nuova sede,
mentre il mio occhio già vede
dal finestrino, oltre il fumo
umido del nebbione
che ci avvolge, rosso
il disco della mia stazione.
Chiedo congedo a voi
senza potervi nascondere,
lieve, una costernazione.
Era così bello parlare
insieme, seduti di fronte:
così bello confondere
i volti (fumare,
scambiandoci le sigarette),
e tutto quel raccontare
di noi (quell’inventare
facile, nel dire agli altri),
fino a poter confessare
quanto, anche messi alle strette,
mai avremmo osato un istante
(per sbaglio) confidare.
(Scusate. È una valigia pesante
anche se non contiene gran che:
tanto ch’io mi domando perché
l’ho recata, e quale
aiuto mi potrà dare
poi, quando l’avrò con me.
Ma pur la debbo portare,
non fosse che per seguire l’uso.
Lasciatemi, vi prego, passare.
Ecco. Ora ch’essa è
nel corridoio, mi sento
più sciolto. Vogliate scusare.)
Dicevo, ch’era bello stare
insieme. Chiacchierare.
Abbiamo avuto qualche
diverbio, è naturale.
Ci siamo – ed è normale
anche questo – odiati
su più d’un punto, e frenati
soltanto per cortesia.
Ma, cos’importa. Sia
come sia, torno
a dirvi, e di cuore, grazie
per l’ottima compagnia.
Congedo a lei, dottore,
e alla sua faconda dottrina.
Congedo a te, ragazzina
smilza, e al tuo lieve afrore
di ricreatorio e di prato
sul volto, la cui tinta
mite è sì lieve spinta.
Congedo, o militare
(o marinaio! In terra
come in cielo ed in mare)
alla pace e alla guerra.
Ed anche a lei, sacerdote,
congedo, che m’ha chiesto se io
(scherzava!) ho avuto in dote
di credere al vero Dio.
Congedo alla sapienza
e congedo all’amore.
Congedo anche alla religione.
Ormai sono a destinazione.
Ora che più forte sento
stridere il freno, vi lascio
davvero, amici. Addio.
Di questo, sono certo: io
son giunto alla disperazione
calma, senza sgomento.
Scendo. Buon proseguimento.

Giorgia Pellorca
Vive nell'agro pontino e quando può si rifugia in collina, a Cori, tra scorci mozzafiato, buon vino e resti storici. Ha studiato Lettere moderne per poi specializzarsi in Filologia. Curiosità ed empatia si fondono nell'esercizio dell'insegnamento. Organizza eventi quali reading e presentazioni di libri.