ArteLetteraturaPrimo PianoPost-illa: tra sogno e realtà, ricominciare dopo una crisi attraverso la metafisica

Giorgia Pellorca23 Agosto 2019
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Crisi: momento difficile, di forte turbamento, di riflessione. Viene dal greco “krisis”, scelta, e da “krino”, distinguere. Non ha dunque un’accezione negativa come la intendiamo oggi. Anzi, la crisi è positiva: è la quiete (non calma) prima del cambiamento e dell’azione. È saper distinguere il prima dal dopo. Ricostruire dopo la demolizione. Detto così il tutto può sembrare utopico. Ma il sogno non si allontana di molto dalle macchinazioni del reale: il processo di cui si serve la mente nella costruzione della scena onirica, non è dissimile da quello utilizzato, per esempio, dallo scrittore nella realizzazione del proprio scenario carico di allusioni, simbologie e metafore. Come nota Teige, il sogno rientra in quella categoria di cose certamente non reali, ma – nei limiti del possibile – realizzabili perché nella loro incorporeità qualcosa di concreto lo possiedono: la sfera emotiva e il desiderio.

 

Il sogno realizzato dalla poesia o dal quadro diventa una forza che vuole realizzarsi e identificarsi con la vita. Chi crede nell’uomo, chi crede al potere dello spirito umano sa che i prodigi, le poesie, le utopie si realizzano.

 

Ma cosa c’entra il sogno con la crisi? In verità alla base di ogni crisi dovrebbe esserci il sogno. Alla fine del primo conflitto mondiale gli artisti e gli intellettuali italiani volevano concludere le esperienze delle avanguardie e aprire l’anima e la mente all’abbraccio del cambiamento; ma scavando tra le macerie, sovrano indiscusso era diventato il caos. Viene dunque il momento di un ritorno all’ordine: mentre alcuni scrittori ripartono dalla decostruzione del testo per dare vita a un nuovo tipo di romanzo, i pittori tornano al museo come copisti per ritrovare l’eleganza di Piero della Francesca, di Tiziano, di Raffaello; de Chirico e Morandi si incontrano alla Galleria Borghese davanti un Lorenzo Lotto. Si cerca, insomma, di recuperare un valore classico dal quale ripartire, un classicismo metaforico, non realizzabile letteralmente. E la metafisica, in questo contesto, si propone di andare al di là delle cose fisiche e le loro regole, oltre l’oggetto, al di sopra della realtà: come nota Renato Barilli «il “meta” funziona a meraviglia, come invito letterale a varcare la soglia della dimensione del fisico per andare a vedere che cosa c’è al di là, nel luogo dove avvengono sortilegi, inganni, stravolgimenti, affrancati dalle restrizioni del verosimile e delle leggi della fisica». Ma de Chirico e Savinio, padrini metafisici, intendono ricercare il valore nascosto delle e nelle cose: non fanno mai riferimento a una realtà superiore o intellegibile, ma lavorano intorno a un mistero semplice, quello del quotidiano, della normalità, che visto da una diversa prospettiva può diventare vera fonte di un enigma. Ed ecco che nei quadri dechirichiani si mescolano passato e futuro, scenari industriali e marmoree statue classiciste che cercano di indagare il tempo, lo spazio, l’uomo e ogni sua creazione. L’arte metafisica non è tuttavia circoscritta perché molti dei suoi esponenti furono sia artisti che scrittori (gli stessi fratelli de Chirico Giorgio e Andrea/Alberto Savinio), cercando di dare il proprio contributo al rapporto diverso (e soprattutto aperto) con la realtà. Il minimo comune multiplo era la fiducia nel sogno:

 

Il sogno è fenomeno stranissimo ed un mistero inspiegabile ma ancor più inspiegabile è il mistero e l’aspetto che la mente nostra conferisce a certi oggetti, a certi aspetti della vita. […] L’arte è la rete fatale che coglie al volo, come farfalloni misteriosi, questi strani momenti, sfuggenti all’innocenza e alla distrazione degli uomini comuni. Momenti felici ma incoscienti di metafisica si possono osservare tanto nei pittori quanto negli scrittori.

(Giorgio de Chirico, Sull’arte metafisica, estratto dell’articolo pubblicato su Valori plastici, nn. 4-5, aprile-maggio 1919)

 

Ma questa idea sfumata della realtà, questa contaminazione tra divagazioni oniriche e magia del quotidiano, è facile ai fraintendimenti. E, infatti, i fratelli Dioscuri hanno dovuto fare i conti con valutazioni distorte e giudizi affrettati. In un prezioso scritto di Savinio, Talete e Pitagora, pubblicato nel 1948 sulla Fiera Letteraria di Roma, viene fatta chiarezza sul penetrante pensiero che fu suo e del fratello, sull’idea che ha animato la loro poesia metafisica, erroneamente vista al di là delle cose e intesa da loro non come superficie apparente, ma come abisso di profondità:

 

Per molti la poesia viene da fuori alle cose, le tocca, le penetra, le anima di sé; per altri, tra i quali io mi pongo, la poesia non viene da fuori, ma nasce dentro la cosa stessa: dal fondo di ciascuna cosa. Questa è la proprietà della poesia “metafisica”.

 

I giocattoli saviniani, dunque, non sono solo espedienti iconografici, ma veri e propri micromondi da analizzare: rimandano alla loro natura di artificio, di manifattura, alla dimensione ludica e infantile, al candore, alla magia che regola i giochi dei fanciulli, all’immaginario, al bambino che si fa demiurgo e che indaga con innocente curiosità le leggi del mondo; e vale lo stesso per i biscotti dechirichiani, le piazze d’Italia, i manichini e tutto ciò che viene dotato di un’anima all’interno delle opere metafisiche. È un po’ come se fossero incomplete, come se gli autori le avessero volute lasciar completare dagli osservatori; e, di fatto, il completamento sta nello scambio di anime tra chi si mostra e chi contempla.

 

Da qui il carattere di “sogno” della nostra poesia metafisica, di un mondo in condizione di sogno, ossia di nuda interiorità e sgombro dalle rivestiture aggiunte dall’esteriorità.

 

Sogno inteso come viaggio ed esperienza onirica che ci permette di inabissarci in un quadro o nel nostro stesso immaginario, come accade all’Ebdomero dechirichiano che fugge e naviga tra le correnti e le risacche della sua stanza. Alla fine di questa storia metafisica de Chirico suggella la propria opera con tre parole: «Pictor classicus sum». Per cui ora che la crisi etica, sociale, economica, morale ci dilania, di cosa abbiamo bisogno? Tutto ciò che c’era da distruggere è stato distrutto. Ora è necessario ricominciare a costruire. E la tradizione potrebbe aiutarci.

Giorgia Pellorca

Vive nell'agro pontino e quando può si rifugia in collina, a Cori, tra scorci mozzafiato, buon vino e resti storici. Ha studiato Lettere moderne per poi specializzarsi in Filologia. Curiosità ed empatia si fondono nell'esercizio dell'insegnamento. Organizza eventi quali reading e presentazioni di libri.