Quando si pensa a un classico – specialmente se latino o greco – non si può fare a meno di pensare alla pedanteria, quasi fino a sentirla sulla schiena pronta a ingobbirci, a schiacciarci. Avviene anche ai più colti: quando venne proposto a Paul Valéry di tradurre le Bucoliche durante gli anni del secondo conflitto bellico, egli inizialmente replicò così:
La vita pastorale mi è estranea e mi sembra noiosa. L’attività agricola esige esattamente tutte le virtù che io non posseggo. La vista dei solchi mi rattrista – anche di quelli che traccia la mia penna. Il ritorno delle stagioni e dei loro effetti procura l’idea della stupidità della natura e della vita, solo capace di ripetersi e conservarsi.
Sicuramente contrariato anche dal pensiero di dover approcciarsi nuovamente a una lingua studiata da ragazzo e solo tra i banchi di scuola, Valéry alla fine accettò di affrontare questa prova che gli si era presentata come estenuante. Dopo un anno di duro lavoro, all’interno della preziosa introduzione intitolata Le variazioni sulle Bucoliche, l’autore si ritrovò a motivare le ragioni del suo ripensamento e la ritrovata pacificazione con il capolavoro virgiliano. La sua è una profonda rivalutazione poetica che parte dalla difficoltà generica della traduzione – e della resa effettiva – fino ad arrivare all’estasi delle atmosfere arcane del mondo bucolico così ammaliante, così seducente, così simbolico. Mentre si legge la prima ecloga, in effetti, sembra di sentirlo il bel Titiro suonare il flauto all’ombra del primo esemplare botanico che compare sulla scena: il faggio, pianta poderosa ben nota agli antichi romani che la associavano al culto di “Juppiter fagutalis”: secondo la tradizione popolare questi alberi non venivano colpiti dai fulmini – erano dunque favoriti dal dio – e a Roma la località di San Pietro in Vincoli, non lontana dal Colosseo, era denominata “Fagutal” proprio perché vi era collocato un suggestivo bosco sacro dedicato alla divinità.
Prendendo in esame la traduzione di Luca Canali cercheremo di tracciare una piccola mappa botanica delle Bucoliche per addentrarci nell’opera e capire come – al di là della metrica e dell’eleganza – l’elemento floristico abbia contribuito nella meravigliata riscoperta del riluttante Valéry e – perché no? – come potrebbe concorrere all’innamoramento dei più scettici nei confronti dei classici e soprattutto della natura.
Partiamo dalle tamerici. Specie caratterizzata da fronde vaporose e piccoli e piumosi fiori disposti in spighe sottili; molto presente nell’immaginario letterario: Pascoli intitola la sua prima raccolta poetica Myricae che vuol dire appunto tamerici; D’Annunzio le nomina ne La pioggia nel pineto («piove su le tamerici / salmastre e aspre») e Montale in Fine dell’infanzia contenuta nell’opera Ossi di seppia («non erano che poche case / di annosi mattoni, scarlatte, / e scarse capellature di tamerici pallide»). Per Virgilio le tamerici sono «umili»: sobrie e fascinose, delicate e suggestive; «non a tutti piacciono gli arbusti e le umili tamerici», scrive. Vengono nominate anche nell’Antico Testamento: «Maledetto l’uomo che confida nell’uomo, che pone nella carne il suo sostegno e dal Signore allontana il suo cuore. Egli sarà come un tamerisco nella steppa; quando viene il bene non lo vede. Dimorerà in luoghi aridi nel deserto, in una terra di salsedine, dove nessuno può vivere». (Geremia 17,5 – 6).
Passiamo all’edera. È il simbolo arcaico di Dioniso: pare che l’edera lo avesse riparato da un temporale quando era appena nato. Secondo un altro mito la dea Gea, mossa dalla compassione, trasformò il figlio morente del dio in edera, affinché il padre potesse sempre averlo vicino. Dioniso viene dunque rappresentato con una corona d’edera e un bastone avvolto dalla stessa. Attraverso questa simbologia la specie botanica diviene dunque emblema della passione, la passione che stringe e imprigiona così come fa questo esemplare con le altre piante e/o i ruderi. Per Virgilio l’edera non è rampicante, ma «errante»: proprio come l’uomo mosso dal “pathos”. Secondo un’usanza ancora diffusa (seppur marginalmente), per segnalare la mescita del vino vengono appese frasche di edera sull’uscio delle cantine.
L’acanto: pianta che nasce spontaneamente e che viene coltivata come ornamento; il nome deriva dal greco “àcanthos” e vuol dire “spina” per via delle estremità appuntite delle foglie e di quelle pungenti dei fiori. Era considerata simbolo di verginità perché riusciva a nascere e a crescere anche in terre non coltivate; le sue foglie adornavano le vesti delle personalità importanti e nel cristianesimo primitivo e medievale simboleggiavano la resurrezione. Al fiore di acanto Pascoli ha dedicato una poesia dal titolo omonimo contenuta in Myricae:
Fiore di carta rigido, dentato
i petali di fini aghi, che snello
sorgi dal cespo, come un serpe alato
da un capitello
fiore che ringhi, dai diritti scapi
Nelle Bucoliche l’aggettivo accostato all’acanto è «gaio». La sua foglia veniva scolpita sui capitelli greci e romani.
Il mirto: pianta che gode di una certa popolarità in Sardegna; dalle sue bacche si estrae un famoso liquore (il mirto, appunto). I rametti sono usati frequentemente come ornamento; è la pianta sacra a Venere: secondo la mitologia la dea – appena nata dalla spuma del mare – trovò rifugio in un boschetto di mirti. Virgilio lo descrive come «tenero».
Passiamo alla verbena. Conosciuta fin dall’antichità, veniva utilizzata dalle tribù indiane e anche dagli antichi romani come rimedio medicinale; le si riconoscono diverse proprietà, perfino magiche. Era la pianta sacra a Iside. Una leggenda narra che fu utilizzata sul Monte del Calvario per disinfettare le ferite di Gesù. Ha inoltre proprietà emollienti e rinfrescanti, forse per questo Virgilio la definisce «oleosa». Verbena è il nome che Calvino dà a un suo personaggio, la principessa della favola La foresta-radice-labirinto.
L’ibisco: fiore estivo sublime e delicato, portato tra i capelli dalle ragazze in Polinesia; tra gli antichi romani ne è attestato il consumo di insalata. I suoi fiori, leggeri ed effimeri, hanno una breve durata; è infatti descritto da Virgilio come «gracile».
Chiudiamo con un piccolo estratto dal mondo bucolico virgiliano:
Vieni qui, o Galatea, che svago c’è tra le onde?
Qui la primavera è di porpora, qui intorno ai fiumi
la terra effonde fiori variopinti, il bianco pioppo
sovrasta la grotta e le flessibili viti intrecciano pergolati.
Vieni qui, lascia che i flutti furiosi battano il lido.
(Ecloga IX)

Giorgia Pellorca
Vive nell'agro pontino e quando può si rifugia in collina, a Cori, tra scorci mozzafiato, buon vino e resti storici. Ha studiato Lettere moderne per poi specializzarsi in Filologia. Curiosità ed empatia si fondono nell'esercizio dell'insegnamento. Organizza eventi quali reading e presentazioni di libri.