LetteraturaPrimo PianoPost-illa: alcune riflessioni su Giacomo Leopardi e sulla (sua) modernità

Giorgia Pellorca31 Maggio 2019
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Come tutti ben sappiamo, questo è il mese e l’anno leopardiano: compie duecento anni quel capolavoro lirico che è l’Infinito. E ormai di Leopardi s’è detto molto: libri romanzati, epistolari fittizi, omaggi scontati e non (anche eccellenti approfondimenti, diciamocelo) hanno contribuito a rendere immortale la sua figura. Ma su Leopardi è stato detto tutto? Certamente no. Infinite possibilità di nuovi itinerari linguistici e filologici possono aprirsi partendo dalla semplice lettura dei suoi scritti. Attraverso un piccolo viaggio all’interno dei suoi testi proveremo a indagare e a ragionare su alcune sfumature del lessico leopardiano che riguardano i concetti di classico e di antico e cercheremo di capire perché – secondo Luzi – è il primo poeta moderno.

Nel carteggio con Pietro Giordani si parla di Classici (con la lettera maiuscola) e, per metonimia, il termini sottintende i libri legati alla formazione e alla tradizione greca e latina. Gli autori greci e latini sono colonne fondamentali e insostituibili nel tempio conoscitivo leopardiano; e se si nominano i classici proprio non vi è dubbio che siano greci e latini. Eppure in quegli anni (1816/1817) qualcosa cambia: Leopardi è un (quasi) ventenne che si sta affacciando sul panorama letterario italiano (anche grazie all’amicizia col Giordani) e infatti avendo modo di confrontarsi e ampliare le proprie vedute, in una lettera successiva sono gli autori della tradizione italiana (definiti dal poeta nella maggior parte delle occorrenze come antichi) ad essere assimilati alla classicità:

 

Dei lavori miei presenti de’ quali mi domandate, non vi posso dire altro se non che ora rimessomi alla peggio in un po’ di trista salute, vo leggendo i miei Classici, Greci la mattina, Latini dopo pranzo, Italiani la sera.

 

I Classici Italiani (con la lettera maiuscola) selezionati e letti da Leopardi sono alla pari delle letture greche e latine; c’è nel Poeta la volontà di rivalutare, oltreché rinnovare, la tradizione italiana, implicando in classico una sfumatura morale che ne sottolinea – aldilà dell’eccellenza formale e retorica – soprattutto l’esemplarità etica (che tanto si avvicina a quella degli antichi), segno inconfutabile che la concezione di classicità stia cambiando nella riflessione leopardiana. Classico non è più sinonimo di canonico, ma diventa e sostituisce il concetto di affidabilità e di eccellenza (i Classici Italiani possono essere – e da questo momento sono – gli autori moderni).

Nei Canti Leopardi affida le proprie scelte linguistiche al senso dell’antico: secondo il Nostro, le parole sono tanto più adatte alla poesia quanto più riescono a dare l’idea di lontananza nel tempo. Si tratta di quella ricerca del vago e dell’indefinito che possiamo porre alla base delle scelte lessicali del poeta a partire proprio dall’Infinito del 1819: la sfida del dire poetico consiste nell’esprimere l’indefinibile attraverso un linguaggio fatto di parole che evocano sensazioni “vaghe”. Leggiamo nello Zibaldone:

 

Una parola o frase difficilmente è elegante se non si apparta in qualche modo dall’uso volgare […] Le parole antiche (non anticate) sogliono riuscire eleganti, perché tanto rimote dall’uso quotidiano, quanto basta perché abbiano quello straordinario e peregrino che non pregiudica né alla chiarezza né alla disinvoltura, e convenienza loro colle parole e frasi moderne.

 

Nelle poesie è preferibile servirsi di parole antiche che evochino un senso di nostalgia, ma non parole anticate abbandonate già dagli autori dell’epoca; bisogna avere un senso critico anche nella scelta delle parole: seppur estinte o cadute in disuso, debbono avere carattere e spessore, devono avere una certa grazia per attivare la facoltà immaginativa e per riportare al cuore le cosiddette “ricordanze”. La linea sottile che divide l’uso di antico da quello di classico è racchiusa nel sentimento, nei sensi, nel sentire la parola e le suggestioni da essa procurate. L’antico provoca la nostalgia nel senso greco del termine, un “dolore nel ritorno al ricordo”, un dolore che però per ossimoro è dolce e piacevole.

 

Le parole lontano, antico, e simili sono poeticissime e piacevoli, perché destano idee vaste, e indefinite, e non determinabili e confuse.

 

E sono queste parole dunque a essere più inclini al discorso poetico. La scelta della lirica – il genere per eccellenza in cui la parola si apre alla dimensione interiore e all’espressione del sentire soggettivo – non nasce in Leopardi da una semplice predilezione per tale modalità di scrittura; essa è piuttosto un punto di vista attraverso cui esprimere al meglio una visione completa dell’esistenza. Riportiamo un altro esempio:

 

Antichi, antico, antichità; posteri, posteriorità sono parole poeticissime ec. Perché contengono un’idea 1. vasta, 2. indefinita ed incerta, massime posterità della quale non sappiamo nulla ed antichità similmente è cosa scurissima per noi. Del resto tutte le parole che esprimono generalità, o una cosa del genere, appartengono a queste considerazioni.

 

Avviene qui un confronto tra il passato e il futuro: afferma Leopardi che questi tempi ci appaiono oscuri non avendone piena consapevolezza e conoscendo unicamente l’epoca da noi vissuta, il presente; certamente non esiste un modo per conoscere il futuro, ma possiamo immaginare, percepire, intuire il passato – studiarlo – proprio attraverso le parole degli antichi che condensano idee vaste e indefinite.

Possiamo quindi affermare che l’utilizzo del termine classico sia legato, per Leopardi, soprattutto alla sfera della tradizione, alla riflessione linguistica e filologica e per questo ricorrente soprattutto nelle epistole e nello Zibaldone, mentre l’impiego di antico appartenga più propriamente alla sfera lirica, quella sentimentale e nostalgica.

La poesia di Leopardi non ha avuto successori nel suo secolo. La coscienza del dramma della modernità, che è il suo principale lascito, è un’eredità che sembra giunta fino a noi; questo è anche il dramma dell’emarginazione del poeta vero che interpreta fino in fondo la realtà del suo tempo, la quale realtà non è in grado – non ha gli strumenti – per comprenderlo. Un paradosso: il poeta rifiuta la società che lo rifiuta. Con grande chiarezza e partecipazione il poeta Mario Luzi (1914-2005) spiega in che cosa consiste la modernità di Leopardi, un moderno “fuori moda”. Troviamo tra l’altro in queste dichiarazioni un bell’esempio di dialogo tra due scrittori di epoche diverse. Riportiamo un estratto molto significativo della conversazione tra Francesco Medici e Mario Luzi, intervista concessa dal poeta nella sua casa a Firenze il 25 settembre 1998. È Luzi a parlare:

 

Lei ha parlato prima di morte della poesia e, in fondo, Leopardi la credeva in un certo senso già morta prima di lui, sapeva di agire dentro quella morte e per questo viveva dolorosamente il confronto con le altre età, perché la sua è un’epoca in cui la modernità, che ancora non ha raggiunto la sua consapevolezza estrema, ha già distrutto il valore poetico e le sue potenzialità di espressione. Leopardi ne era già cosciente e ha agito di conseguenza: di qui nasce il senso della crisi della modernità, che non è il solo aspetto della realtà, ma il principale per lui. Ecco perché oggi noi dobbiamo rendergli omaggio e testimonianza. La modernità comincia con lui, comincia a diventare il dramma che è sempre stato solo attraverso di lui, gli altri non lo avevano avvertito. Leopardi ha percepito tutto quello che comportava essere moderni, ancora prima di Rimbaud e senza mai pensare a una regressione possibile, perché quella strada andava percorsa e bisognava sapere che cosa costava all’uomo di privazione e di perdite, ma anche di acquisti. Ciò spiega perché egli fosse curiosissimo di tutto ciò che la modernità produceva.

 

Leopardi era ben consapevole che prima o poi sarebbe arrivato quel momento in cui gli errori dell’uomo, le illusioni e tutte le favole erano destinati a infrangersi; la scienza risolve appunto questo compito, quasi fosse una giustiziera divina. Allo stesso tempo Leopardi capisce che questa consapevolezza – questa lucidità crudele – aveva reso la condizione umana più disperata e solitaria, ponendo l’uomo solo nell’universo e non più al centro come ci era stato narrato dai grandi miti e da tutta la cultura classica. Anche il patrimonio dei grandi scrittori e pensatori classici è messo in crisi: l’uomo è un incidente dell’universo. Questa è la conclusione alla quale Leopardi arriva e la scienza ha contribuito appunto a puntare un riflettore luminoso sull’infelice condizione effettiva dell’uomo. Tuttavia, accanto a questo sapere, all’oscurità che si apre in nome della lucente conoscenza, quanto mistero permane? Quanto “non sapere” esiste ancora? Leopardi lo aveva già previsto e appuntato nello Zibaldone, quando aveva circa vent’anni: in quelle pagine scrive che la scienza ha aperto – e certamente continuerà ad aprire – molte possibilità di conoscenza, ma non ha generato, non ha progredito nell’espansione dei pensieri e dell’intelletto (cosa che hanno saputo fare la filosofia e la poesia). Non c’è alcuna grandezza di pensiero nata dalla scienza. Manca, ci dice Luzi, un equilibrio tra l’avanzare delle cognizioni scientifiche e la progressione morale dell’uomo. C’è questo insuperabile squilibrio che costituisce il dramma dei nostri tempi. Osservazioni disarmanti se si pensa che Leopardi abbia potuto concepirle nell’Ottocento.

Giorgia Pellorca

Vive nell'agro pontino e quando può si rifugia in collina, a Cori, tra scorci mozzafiato, buon vino e resti storici. Ha studiato Lettere moderne per poi specializzarsi in Filologia. Curiosità ed empatia si fondono nell'esercizio dell'insegnamento. Organizza eventi quali reading e presentazioni di libri.