«E voi cosa ci vedete?», chiede una guida di fronte a un quadro di Mondrian.
«Dei quadrati!», rispondono i bambini.
(Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma, 2008 circa)
Composizione A è la prima opera neoplastica del pittore olandese Piet Mondrian, realizzata nel 1920 e oggi conservata presso la GNAM (Galleria Nazionale d’Arte Moderna) di Roma. La tela, eccetto per l’utilizzo del colore grigio, che scomparirà nelle successive composizioni astratte, risponde in pieno alle regole dettate dalla corrente del Neoplasticismo (1917): utilizzo di linee verticali e orizzontali tra loro assolutamente ortogonali, impiego esclusivo dei non-colori nero e bianco e dei colori primari rosso, giallo e blu stesi in campiture piatte di colore.

Per comprendere la complessità di una rappresentazione tanto elementare si necessita paradossalmente di focalizzarsi su tutto ciò che nella tela non c’è. Gli elementi neoplastici non sono banalmente ciò che si trova nel quadro, ma ciò che nel quadro rimane, ciò che sopravvive all’ostinata e lunghissima ricerca stilistica di un’arte nuova. Si pensi che tale composizione, infatti, venne realizzata dall’artista solo all’età di 48 anni. Sorprende constatare che l’astrattista Mondrian esordisca come paesaggista, ritraendo in maniera assolutamente tradizionale gli splendidi panorami della campagna olandese.




Siamo però prossimi al volgere del XX secolo e la pittura del giovane Mondrian, eccitata dalle nuove ricerche stilistiche che impazzano in Europa, diviene camaleontica. La natura dei suoi paesaggi riesce a mutare la sua epidermide ogni qual volta si avvicini a una nuova corrente artistica: la pennellata imita prima l’instancabile picchiettio del puntinista, poi la fugacità della pennellata impressionista, si immerge ancora nel tormento vibrante del colore di Van Gogh, azzarda illuminandosi di audaci tinte fauviste e ancora si mimetizza fra le prime scomposizioni cubiste di Braque e Picasso.

Questo ingombrante bagaglio di esperienze corrisponde esattamente a tutto ciò a cui Mondrian rinuncia e dunque a tutto ciò che nella tela oggetto di analisi non c’è, non rimane e non sopravvive. L’artista non si lascia rapire dal fascino di nessuna delle nuove interpretazioni dell’arte d’avanguardia, poiché la sua di arte, prima che rappresentazione, è pensiero e affonda dunque le sue radici nella filosofia. Allo scadere del XIX secolo si avvicina alla disciplina della teosofia, secondo la quale l’origine del mondo corrisponde a un tutto unitario, perfettamente armonico, in cui non esisteva alcuna dualità. La polarizzazione – tra bene e male, materia e spirito, natura e uomo – avvenne solo in un secondo momento e portò al contempo all’evoluzione e alla disarmonia del cosmo. La teosofia si propone come obiettivo il ritorno all’universalità originaria. Questa dichiarazione d’intenti ci riporta al nome di un grande filosofo razionalista: Spinoza, che nella sua Etica vuole dimostrare, attraverso un linguaggio puramente matematico fatto di assiomi, postulati, definizioni e corollari, come l’unica verità del mondo coincida con la totalità della Natura. Parafrasando: il fiore, l’albero e l’animale che noi pensiamo esistano di per sé nella loro singolarità, sono solamente attributi temporanei e perituri di un tutto più grande ed eterno che è la Natura nel suo complesso. Anche per Spinoza, dunque, l’origine e la verità del mondo coincidono in un tutto unitario.
Mondrian opera come filosofo: con le sue griglie geometriche, che richiamano il vocabolario matematico di Spinoza, si pone alla ricerca della rappresentazione del tutto unitario. L’olandese o l’impressionista che ritragga il paesaggio, così come il cubista che scomponga in piani nature morte e volti, erra tanto quanto l’uomo che pensi che il fiore, l’albero o l’animale esistano nella loro singolarità, poiché raffigura sulla tela solo un particolare della realtà universale a cui tutto appartiene e da cui tutto ha origine. Mondrian riduce l’arte ai suoi puri valori neoplastici, poiché essi sono il minimo comune multiplo di ogni possibile raffigurazione, il tutto unitario da cui ogni rappresentazione deriva. Sono questi gli unici elementi, che in questo estenuante processo a togliere, sopravvivono sul campo d’azione della tela.
Ogni composizione mondrianea è sempre un passo prima della rappresentazione. È rappresentazione in potenza. È origine. È la tavolozza di cui Dio si è servito per creare l’arte: fra l’alfa e l’omega, la luce e l’oscurità e dunque fra i non-colori bianco e nero, Dio permetterà ai color primari di amarsi per partorire poi un’infinita progenie di colori secondari che popolino le tele; spazzerà via il rigido sistema delle linee ortogonali per inclinarle in diagonali che fungano da tetto, rifugio e contorno per quei colori pellegrini e ancora addolcirà la drittezza dei segmenti per plasmarli a immagine e somiglianza di qualsivoglia profilo del creato.
Molteplici sarebbero ancora le interpretazioni date alle griglie mondrianee: una traduzione pittorica del ritmo della sua amata musica jazz; un tentativo di ricostruzione del mondo dopo lo sfacelo della prima guerra mondiale; sbarre di quella prigione in cui l’artista incompreso si sentiva intrappolato, giungendo al successo solo un paio d’anni prima della sua morte. Di fronte a una tale quantità di dissertazioni non vi è da stupirsi, poiché con l’arte contemporanea ciò accade spesso: che meno ci sia da vedere, più ci sia da dire. Si pensi, ad esempio, alle infinite interpretazioni date ai Tagli di Lucio Fontana. Ma chiedetelo a un bambino cosa ci veda in una composizione di Mondrian e lui vi spiazzerà, rispondendo con sicurezza assoluta: «Dei quadrati!». Chiedetevi se un bambino possa davvero porsi così tante domande di fronte a una semplice serie di quadrangoli riempiti con del rosso, del giallo e del blu, non potendo comprendere che quell’uomo abbia impiegato circa 50 anni per arrivare a realizzare ciò che addirittura loro potrebbero riprodurre in pochi minuti. Chissà cosa penserebbero poi di tutti quegli adulti che in quel quadro dicono di vederci la musica, l’arte, la filosofia e addirittura la religione: probabilmente che siano dei folli.
Più che Mondrian, l’attenzione che a Mondrian è stata dedicata da critici e appassionati ci insegna che l’arte contemporanea è questo: una favola per adulti. Una favola fatta di paroloni complicati, pensieri intricati, ragionamenti contorti, rimandi infiniti che mai arriveremo a conoscere nella loro totalità. È una favola dura a comprendersi e per seguirne lo sviluppo bisogna armarsi di pazienza infinita ma soprattutto di infinita fantasia, poiché nell’arte contemporanea – come detto – vi è poco da vedere, poiché tutto è da immaginarsi.

Francesca Ombres
Sul cielo del suo quartiere di periferia dipingeva i suoi desideri, scarabocchiandoci sopra parole a cui non riusciva a dar fiato. Smise di disegnare, innamorandosi invece di chi aveva ancora il coraggio di farlo. Così le parole mute di ieri divengono oggi “conversazioni immaginarie” - come questa città - con quegli uomini coraggiosi chiamati Artisti.