Nel 1523, Galeazzo Sanvitale – per cercare di allinearsi ai dettami della cultura rinascimentale di stampo umanistico diffusasi nelle corti padane – commissionò al giovane Francesco Mazzola, meglio conosciuto come Parmigianino, la decorazione di una saletta posta al pian terreno della propria residenza di Fontanellato, in provincia di Parma. La piccola sala, di forma rettangolare (4,35 x 3,90 x 3,50 metri), è chiusa da un soffitto a volta costituito su quattordici lunette, nelle quali il Parmigianino dipinse ad affresco il mito di Diana e Atteone, contaminando le lezioni classiche di Igino, Pausania e Ovidio (Metamorfosi, Libro III, vv. 138-253).
Il tema è spiegato anche dai versi latini che corrono lungo il fregio, in lettere dorate su sfondo chiaro, al di sotto delle lunette: «AD DIANAM / DIC DEA SI MISERUM SORS HUC ACTEONA DUXIT A TE CUR CANIBUS / TRADITUR ESCA SUIS / NON NISI MORTALES ALIQUO / PRO CRIMINE PENAS FERRE LICET: TALIS NEC DECET IRA / DEAS» («A Diana. Dì, o dea, perché, se è la sorte che ha condotto qui il misero Atteone, egli è dato da te come cibo ai suoi cani? Solo per una colpa è lecito che i mortali patiscano una pena: una tale ira non si addice alle dee»).
La volta immette nel cuore di un fitto giardino, aperto al centro su un cielo azzurro, bordato da una siepe di rose arrampicate su un incannicciato. Al centro del cielo, una cornice di legno intagliato racchiude una sorta di finto specchio, con il motto “Respice Finem” (“guarda la fine”) su sfondo avorio: si tratta di un invito a seguire il tragico finale della storia sottostante. Lo spazio del giardino è scandito in pennacchi a finto mosaico dorato, sfondati in oculi aperti sul cielo; essi presentano sui peducci – al posto dei capitelli – dei mascheroni in stucco, dove si alterna una progenie di putti nelle pose più disparate.

In questo affascinante pergolato, direttamente ispirato all’esempio di Correggio nel convento di San Paolo a Parma realizzato pochi anni prima, Parmigianino elabora gli effetti di dilatazione spaziale, combinandoli con tratti ornamentali più sofisticati di quelli correggeschi, e incalzando il ritmo narrativo tramite lo slancio serpentino che allunga le figure e ne accentua le sinuose morfologie. Parmigianino, dunque, dimostra di aver compreso a pieno le conquiste tecniche e compositive del Rinascimento, ma anche di essere pronto a superarle per diventare uno dei massimi esponenti del manierismo europeo.

Il racconto di Diana e Atteone, miseramente divorato dai suoi stessi cani dopo avere assunto le sembianze di un cervo, a seguito dello spruzzo d’acqua di Diana adirata, si svolge a partire dalle lunette della parete nord. Qui due cacciatori in abiti classici inseguono una ninfa che si dirige verso un bosco. L’abbigliamento, il corno da caccia e il levriero tenuto al guinzaglio la caratterizzano come seguace di Diana cacciatrice. Questa figura è stata interpretata come possibile identificazione femminile di Atteone.

La storia prosegue in senso orario nella parete est, dove è raffigurato il momento in cui Atteone scopre involontariamente Diana che, in compagnia delle sue ninfe, si sta purificando in una fontana dopo la caccia. L’abbigliamento del cacciatore è identico a quello della ninfa della parete precedente, così come femminile è la struttura fisica delle braccia e delle mani. Sulla testa della dea, invece, è presente il suo attributo, la falce lunare; una delle sue compagne tiene in mano due libri. Diana è colta nel momento in cui, per punirlo, spruzza dell’acqua sul volto di Atteone che inizia a trasformarsi in cervo: la metamorfosi è a uno stadio ancora iniziale, il cacciatore infatti è raffigurato con la testa cervina e il corpo umano. Lo spruzzo d’acqua di Diana assume il valore simbolico di un gesto battesimale, che preannuncia la morte di Atteone.

Nella parete sud la favola arriva al suo culmine. Un giovane cacciatore, posto di spalle rispetto allo spettatore, dà l’avvio alla caccia suonando un lungo corno: la preda è Atteone, ormai tramutato completamente in cervo, che viene sbranato dai suoi cani, mentre sulla destra un giovane e un vecchio assistono indifferenti alla scena. Il cervo ha uno sguardo mite e quasi rassegnato: questa mancanza di “pathos” è una variante rispetto al testo delle Metamorfosi ovidiane, in cui è descritta la fuga concitata di Atteone e ai suoi tentativi di urlare per farsi riconoscere. Il levriero in primo piano porta sul collare una conchiglia bivalve aperta, emblema dei Sanvitale.

Sopra il peduccio che separa le due lunette con la morte di Atteone sono raffigurati due bambini, di cui uno guarda verso lo spettatore e sembra sorreggere l’altro, neonato, che indossa una collana di corallo e tiene in mano un rametto di ciliegie. Secondo la critica si tratterebbe dei figli di Paola Gonzaga e Galeazzo Sanvitale, dei quali il più piccolo pare morì molto presto. Questa morte prematura giustificherebbe la presenza degli stessi attributi propri di Cristo bambino, come allusione alla sua futura passione.

Al centro della parete ovest, su uno sfondo dorato, primeggia una figura femminile con un elegante abito cinquecentesco che tiene in mano gli attributi di Cerere, due spighe di grano. È la divinità materna che presiede alla fertilità, ma in quanto madre di Proserpina è legata anche al tema della morte e della rigenerazione. La critica identifica questa donna con Paola Gonzaga; è volta verso l’inizio della narrazione, come a invitare alla lettura della favola. La funzione introduttiva di questa parete viene confermata dall’iscrizione, che parte con l’invocazione alla dea proprio subito dopo la lunetta in questione. Questa figura, dunque, costituisce al tempo stesso sia un incipit che una simbolica conclusione dell’intero ciclo. Se la parte superiore è riccamente decorata, la parte inferiore delle pareti è invece spoglia, forse un tempo coperta da arazzi.
Ci si domanda, a questo punto, quale fosse la funzione di questa piccola stanza, peraltro mai citata dal biografo Giorgio Vasari fra le opere del Parmigianino. A causa delle dimensioni estremamente ridotte e dell’unica apertura, rappresentata dalla porta d’ingresso, si induce a pensare si trattasse di un ambiente privato e di raccoglimento di Paola Gonzaga, forse utilizzato come bagno o studiolo.
Svariate sono le spiegazioni che ha avuto nel corso dei secoli la presenza del mito di Diana e Atteone nella sua decorazione: la più accreditata vi legge una celebrazione dell’ingiusto destino che, al pari dell’innocente Atteone (finito sbranato dai suoi stessi cani), investe Paola Gonzaga (probabilmente raffigurata, come si è detto, nella lunetta a fondo oro), la quale – pochi mesi prima della realizzazione dell’affresco – aveva perso un bambino, riconoscibile nel neonato con la collana di corallo. La scelta del soggetto del ciclo sembrerebbe, quindi, collegata a questo lutto familiare.

Anna D’Agostino
Classe '93, laureata in Storia dell'Arte con una tesi in Museologia sull'arredamento dell'Ambasciata d'Italia a Varsavia dalla quale è scaturita una pubblicazione in italiano e polacco. Prosegue la ricerca inerente l'arredamento delle Ambasciate d'Italia nel mondo grazie a una collaborazione con la DGABAP del Mibact. É iscritta al Master biennale di II livello "Esperti nelle Attività di Valutazione e di Tutela del Patrimonio Culturale".