Di fronte alle manie di protagonismo, di grandezza e all’incrollabile “fede” dell’uomo in se stesso, è forse utile ricordare quanto sia futile qualsiasi ritenuta ragionevole pretesa di disporre – di se stessi o degli altri – in maniera definitiva. Il controllo – benché illusorio – che si credeva di esercitare, sfugge; quel che sembrava di aver raggiunto e ottenuto, a prezzo magari di tanta fatica, si dissolve e quel che emerge è l’uomo, nella sua miseria e nullità rispetto a ben altra grandezza, non nostra, non di questo mondo.
«Omo, mittete a pensare onne te ven lo gloriare. Omo, pensa de che simo e de che fommo e a che gimo ed en che retornarimo; ora mittete a cuitare». È l’incipit di una poesia di Jacopone da Todi in cui egli si rivolge, in forma imperativa, all’uomo perché rifletta sull’origine delle cose di cui si vanta. Nella poesia fanno seguito gli aspetti più sgradevoli e repellenti dell’uomo, a partire dal «seme» come «soietto putulente» da cui è stato concepito, fino alle pulci e ai pidocchi di cui si parla nella penultima strofa. È un tema, quello dell’insistenza sugli aspetti più turpi della condizione umana, particolarmente caro a Jacopone che – specie nel Laudario – insiste sistematicamente sugli aspetti negativi della realtà, adoperando un linguaggio denso di termini che si riferiscono proprio alla concretezza della vita. Una scelta in linea con la sua volontà di umiliarsi e mettere in risalto la desolante condizione dell’uomo.
Dopo aver condotto un’esistenza particolarmente spregiudicata, la tradizione attribuisce alla morte di sua moglie e alla scoperta dell’utilizzo di un cilicio – nascosto dalle vesti – la sua conversione. Intransigente, il suo rifiuto ai compromessi si estenderà fino alla condanna delle ambizioni di Papa Bonifacio VIII, il quale lo scomunicherà e incarcererà fino al 1303, quando sarà eletto il nuovo Pontefice, Benedetto XI. Jacopone rifiuta la vita sociale, che gli appare intrisa di egoismo, interesse e ambizioni, compiacendosi – al contrario – di ciò che la società rifiuta: povertà, malattia, follia. Dal rifiuto del mondo, deriva la scelta ascetica e la mortificazione del corpo attraverso il digiuno, la flagellazione, le privazioni: strumenti catartici per ascendere alla realtà celeste, all’amore divino. Una religiosità, quindi, molto lontana da quella di san Francesco, protesa – invece – verso il mondo e la vita. Due modi diversi per esprimere, in fondo, lo stesso trasporto, lo stesso amore per Dio. Dalle Laude ai Detti, Jacopone ha un’originalità e un’intensità straordinarie nel renderci i suoi sentimenti anche più drammatici, in un incedere e una densità tali da lasciare stupefatti, senza fiato, senza parole. Muore, quest’uomo dalla personalità così forte, nella notte di Natale del 1306.

Monica Di Martino
Laureata in Lettere e laureanda in Filosofia, insegna Italiano negli Istituti di Istruzione Secondaria. Interessata a tutto ciò che "illumina" la mente, ama dedicarsi a questa "curiosa attività" che è la scrittura. Approda al giornalismo dopo un periodo speso nell'editoria.