CinemaPrimo Piano«Ombre e polvere, Massimo!»: 20 anni fa usciva “Il gladiatore” di Ridley Scott

Alessandro Amato19 Aprile 2020
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È abbastanza evidente come Il gladiatore (2000) di Ridley Scott sia invecchiato meglio delle critiche alle sue incongruenze storiche. Ben inteso, nel film ci sono davvero abnormi errori di ricostruzione e non poche licenze poetiche. Ma è anche vero che nel suo complesso l’operazione funziona proprio perché nelle logiche interne alla narrazione tutto torna perfettamente. E forse un tale risultato non si sarebbe potuto ottenere se ci si fosse riferiti a caotici e frammentari fatti storici. La storia di Massimo Decimo Meridio ha più a che fare con il mito, e si colloca sullo sfondo di un mondo che è più vicino ai peplum degli anni Cinquanta che ai manuali scolastici. È così che bisogna ragionare quando si costruisce un kolossal: miscelando finzione e realtà a vantaggio esclusivo dello spettacolo. E con tale termine ovviamente si intende l’espressione di emozioni, non certo l’intrattenimento fine a se stesso. Insomma, un cinema che intende esplorare l’animo umano.

A partire dall’esordio, I duellanti (1977), Scott si è spesso interrogato sul ruolo dell’umanità in questo assurdo marasma chiamato vita. E lo ha fatto costruendo un immaginario certo manicheo, legato alla lotta tra il bene (la luce) e il male (l’oscurità), ma riuscendo – grazie a questo suo approccio didascalico e diretto – a raggiungere un pubblico sempre più vasto. Infatti, a differenza di coetanei inglesi anch’essi avvezzi all’estetica pubblicitaria, come Hugh Hudson e Alan Parker, Ridley è noto per aver realizzato almeno quattro cult popolarissimi: Alien (1979), Blade Runner (1982), Thelma & Louise (1992) e, appunto, Il gladiatore. Quest’ultimo, poi, fu un vero azzardo perché da decenni nessuno provava a rimettersi i sandaloni. Il progetto è targato Dreamworks ed è dovuto soprattutto all’intuizione dello sceneggiatore/produttore David Franzoni, già dietro Amistad (1997) di Steven Spielberg. Come sarebbe nel 1999, con la nascente tecnologia digitale, un film epico vecchio stile?

La risposta è sotto gli occhi di tutti. A contribuire al successo vi è certamente un cast straordinario, che riunisce talenti di diverse generazioni con grande serenità. Il protagonista Russell Crowe usciva da un decennio di ruoli da duro romantico come quelli in L.A. Confidential (1997), Insider (1999) e Rapimento e riscatto (2000) e aspettava solo il momento di spiccare il volo. Mentre Joaquin Phoenix era forse all’ultimo tentativo prima di gettare la spugna. Ne sono derivate due carriere pazzesche, tanto che il primo oggi è considerato un divo e il secondo ha interpretato il recente Joker di Todd Phillips con la consapevolezza di essere il migliore sulla piazza. Intorno a loro alcuni mostri sacri come Richard Harris e Oliver Reed, scomparsi poco dopo, ma anche il grande Derek Jacobi nel ruolo di un senatore. Il Gladiatore poi colpisce per la sua forma, il senso di immersione dato da luce e colori del fidato John Mathieson, la scelta dei paesaggi, e i temi musicali di Hans Zimmer.

«I costumi per me sono molto importanti nella definizione dei personaggi», ha affermato Ridley Scott, e si vede. Ogni minimo dettaglio è conformato a un’idea di cinema che diventa un sogno per immagini, la formulazione di un’altra realtà. Il concetto stesso di messa in scena diventa nelle mani del regista un’arma e un regalo. Siamo in un universo parallelo, storicamente dubbio e indefinito, in cui contano solo i sentimenti. Massimo è un generale che non vorrebbe essere dove si trova ma non può fare altrimenti, e ciò vale anche nel momento in cui diventa schiavo. Siamo mai davvero liberi, se non nel privato? E quando gli affetti ci vengono tolti? Per il regista «ha fatto la sua parte anche il forte sostrato spirituale della pellicola». Ci troviamo a cavallo dei millenni, quando la filosofia New Age ha già avuto la sua massima espressione in Matrix (1999), avviandosi verso il declino, e anche un ateo come Ridley Scott può accettare di rappresentare l’aldilà come un luogo di speranza. Il fascino del film sta davvero qui.

Una mano (che in realtà appartiene alla controfigura del protagonista) scivola sulle spighe di grano, accompagnata dalla voce di Lisa Gerrard che canta in una lingua totalmente inventata poiché, ha spiegato, «questo brano è fatto per far scaturire sentimenti attraverso i suoni delle parole e non il significato che esse racchiudono». Insomma, tutto torna. Da qualche parte, nelle battute dei personaggi e nella complessiva raffigurazione di Roma, c’è anche un accenno un po’ pigro di satira: l’ombra di un mondo che vorrebbe cambiare ma sa già che alla fine tornerà a essere polvere. Ancora una volta, ciò che conta è lo spettacolo. Anche questo è postmodernità e non dobbiamo scordarlo. Lo stesso principio varrebbe se si riguardasse un po’ meglio Pirati dei caraibi (2003), altro progetto nato in braccio al rischio che però ha vinto perché ha intuito che cosa il pubblico voleva (e vuole ancora) vedere. E dopo 20 anni Il gladiatore ha almeno un merito: chiunque lo riconosce al volo.

Alessandro Amato

Nato a Milano, conclude gli studi a Torino, dove continua a lavorare nell'ambito critico e festivaliero. Collabora con "A.I.A.C.E." e il magazine "Sentieri Selvaggi". Dirige rassegne di cortometraggi e cura eventi per la valorizzazione del cinema italiano. Quando capita è anche autore di sceneggiature per la casa di produzione indipendente "Ordinary Frames", di cui è co-fondatore.