LetteraturaPrimo Piano«Ogni vecchio è sempre un re Lear»: la complessità dei sentimenti al centro del capolavoro di William Shakespeare

Adele Porzia6 Gennaio 2022
https://lacittaimmaginaria.com/wp-content/uploads/2022/01/rrrrr.jpg

Prendiamoci un momento e parliamo di Re Lear, affascinante tragedia di William Shakespeare, forse la più intrigante delle opere mature di questo misterioso e poliedrico autore. Un uomo di cui sappiamo davvero poco, dato che addirittura il suo nome e il suo ritratto sono soggetti ad angoscianti dubbi, che ancora oggi attanagliano spettatori e critici, eternamente sbalorditi dalla capacità di questo geniale scrittore di produrre copiosamente opere sensazionali. Persino il Riccardo III, che potremmo considerare il suo primo capolavoro (seppur legnoso e ancora distante dal livello retorico e stilistico che conseguirà il poeta in altre opere, caratterizzate da personaggi ben più complessi), è un’opera di straordinaria grandezza. Tanti hanno ritenuto che quello che ci è pervenuto di Shakespeare non sia unicamente il risultato della sua penna. E anche questo è argomento quanto mai complesso, perché i testi che sono giunti sino a noi sono il risultato di un lungo lavoro di rimaneggiamenti e migliorie. In base alle reazioni del pubblico, infatti, si operavano cambiamenti di trama e di personaggi; gli stesi attori potevano modificare il canovaccio, lasciarsi andare a reinterpretazioni e a monologhi ispirati dal momento, improvvisazioni poetiche, che lo scrittore opportunamente poteva inserire. Si tratta di rilievi che, come si è appena scritto, contribuiscono ad aggiungere complessità al quadro generale, non potendo liquidare il tutto con poche battute. Perciò, tanto vale ritornare al nostro Re Lear, nostro perché ci riguarda da vicino, un po’ come tutte le grandi opere letterarie, in grado di parlarci apertamente, nonostante lo scorrere inevitabile dei secoli.

Lear è un re che sente il peso degli anni e che si trova a dividere il regno tra le sue tre figlie, che mostra di non amare allo stesso modo. Le ragazze ne sono ben consapevoli e, specie le maggiori, provano acrimonia per il padre e invidia per l’ultimogenita, Cordelia, che il genitore sembra preferire. Alla sorella in questione, infatti, intende lasciare la porzione più grande del suo regno; in più, è con quest’ultima che intende finire i suoi giorni. Eppure, essendo un vanesio, decide di testare l’affetto delle sue tre figlie, specie di Cordelia. E, nel bel mezzo di questa sorta di test (che si svolge davanti a tutto il meglio e il peggio dell’aristocrazia, di cui Shakespeare mostra la progressiva presa di potere, a dispetto della famiglia reale e dello stesso re), Lear mostra la gerarchia del suo affetto e domanda prova del loro amore nei suoi confronti.

È già un primo sintomo della follia che pervade l’uomo, che va ben oltre l’umano bisogno di affetto filiale, rivelandosi al contrario una spia del morboso attaccamento nei confronti di quel potere che sta per perdere e di cui vuol disporre un’ultima volta. Questo pare essere l’ultimo scherzetto di un vecchio pazzo, non un comune folle, ma un tiranno. Il che ha il suo peso: egli, infatti, è temuto dal suo popolo, e la fiducia che i sudditi e la corte sembrano provare nei suoi confronti, deriva unicamente dalla paura che il vecchio incute. Nell’immaginario comune, infatti, il tiranno è imprevedibile, impulsivo e crudele. Gioca col suo potere, e così è Lear. Perciò, sottopone le figlie a questo terribile test, davanti alla corte, perché desidera un’ultima prova di adulazione, a cui la sua prediletta decide di non sottoporsi, divenendo emblema di virtù e di integrità morale, per cui sarà espressamente elogiata da Victor Hugo, venendo innalzata – durante tutto il corso dell’Ottocento – a simbolo di sacrificio e di rinuncia in nome delle proprie idee e dei propri sentimenti. Insomma, un’autentica Antigone shakespeariana, disposta infine al perdono in nome del proprio sincero amore filiale.

Il tiranno chiama le figlie in ordine d’età: per prima tocca a Goneril, la primogenita, colei che mostra di amare di meno, ma che riesce a stupire il padre con un’accorata – quanto insincera – dimostrazione d’affetto, colma di esagerazione, eppure perfetta per quel test (che passa a pieni voti), ghiotta occasione per dare sfoggio di retorica, cosa che l’astuta principessa sa bene. Poi è il turno della secondogenita Regan, chiamata dal sovrano «la nostra carissima», che non possiede la straordinaria verve della sorella, ma riesce comunque a piegare l’uditorio e a sorprendere il genitore. Le due figlie, pur non nutrendo il minimo attaccamento verso il padre, essendo anzi stufe per la sua condotta impulsiva e infantile, superano brillantemente la prova, lasciando spazio alla terza e ultima figlia, che l’uomo accoglie con l’espressione «nostra gioia», rivelatrice del suo reale attaccamento. Cordelia, però, non riesce a essere eloquente come le sorelle, né intende farlo. Il suo è un amore sincero, costruito su un legame reale con il genitore, nato al di fuori della retorica e dell’ostentazione. Quel test è per lei inaccettabile, poiché i sentimenti, se reali e sinceri, vanno sussurrati, e non meritano di essere posti sullo stesso piano del vanesio chiacchiericcio di chi non prova nulla. La scelta di Cordelia di non dire niente, di ostacolare il genitore, finanche di perderne l’affetto e il regno, segnano l’inizio della fine di re Lear. La tragedia si rivela essere un’esplorazione della natura umana e di come la storia sia una diretta conseguenza di questi contorti modi di agire e di pensare.

E un uomo, ormai vecchio, reso folle dal potere e bambino dalla vecchiaia, diviene simbolo dell’umano bisogno di amore, ancor più forte negli ultimi anni di vita, quando si sente di più la necessità di dimostrare agli altri e a se stessi di non aver fallito nelle cose davvero importanti. «Ogni vecchio è sempre un re Lear», scrisse Johann Wolfgang von Goethe, commentando quell’ultimo puerile gesto del sovrano. E molto ci sarebbe ancora da dire su questo tiranno, sullo scontro generazionale che pervade l’intera opera e sul tema dell’adulazione, nonché dell’ingratitudine filiale, che divide la tragedia in buoni e cattivi. Ma è bene chiarire, in conclusione, che la vecchiaia acuisce caratteristiche proprie dell’uomo e che, quindi, il vecchio Lear non è che la versione esagerata e disequilibrata di se stesso da giovane.

Adele Porzia

Nata in provincia di Bari, in quel del ’94, si è laureata in Filologia Classica e ha proseguito i suoi studi in Scienze dello Spettacolo. Giornalista pubblicista, ha una smodata passione per tutto quello che riguarda letteratura, teatro e cinema, tanto che non cessa mai di studiarli e approfondirli.