La Ballata del carcere di Reading (The Ballad of Reading Gaol), di C.3.3. L’attribuzione di questa ballata è l’identità che Oscar Wilde assunse durante il suo periodo di detenzione presso la prigione di Reading, città del Berkshire, a sud-est dell’Inghilterra. In questo carcere i detenuti non erano più uomini con un nome, ma venivano riconosciuti tramite sigle formate da lettere e numeri indicanti la cella nella quale i prigionieri scontavano la loro pena: Wilde si trovava al blocco C, al piano 3, nella cella 3.
Tutto iniziò perché Bosie – ovvero Lord Alfred Douglas, amante di Wilde – nutriva un ossessionato desiderio di vendetta nei confronti del proprio padre, il quale aveva pubblicamente rivelato l’omosessualità dello scrittore. Convinse quest’ultimo a denunciare per diffamazione suo padre, il quale però porto in tribunale le prove contro Wilde: il risultato fu una condanna. Il 25 marzo del 1895 lo scrittore irlandese, celebre per Il ritratto di Dorian Gray (1890), venne condannato a scontare diciotto mesi di lavori forzati. Dopo essere stato in varie prigioni, nel novembre dello stesso anno giunse a Reading, dove rimase fino al 18 maggio del 1897.
Il titolo della poesia, composta dopo la scarcerazione, rappresenta una sorta di ossimoro: una ballata ambientata in un luogo squallido e pieno di sofferenza e morte. E la morte è proprio il tema attorno al quale si sviluppa il componimento. Durante la sua prigionia Wilde aveva assistito all’esecuzione di uno dei carcerati, il soldato Charles Thomas Wooldridge, colpevole di aver assassinato la moglie. La ballata si concentra attorno a questa vicenda e alla vita che i prigionieri conducono lì dentro, i quali sono paragonati a dei dannati dell’inferno dantesco: «Camminavo con altre anime in pena / In un altro cerchio» e ancora:
Ed io e tutte quelle anime in pena
Nell’altro cerchio incedenti
Dimenticammo se la nostra colpa
Fosse grave o leggera
Il tema centrale ruota attorno al sentimento della pietà cristiana, saldo e forte tra i detenuti nei confronti di colui che sta per finire i propri giorni mortali:
Così con occhi curiosi e congetture angosciate
Di giorno in giorno osservandolo,
Ci chiedevamo se ognuno di noi
Non finirebbe alla stessa maniera
Poiché nessuno può dire fino a qual rosso inferno
Possa smarrirsi la sua cieca anima.
Wilde, però, non ravvisa la stessa pietà nel cappellano, che appare schierarsi dalla parte dei giudici che hanno condannato a morte quell’assassino:
Il cappellano non s’inginocchierebbe a pregare
Presso la sua disonorata tomba,
Né la segnerebbe con quella croce benedetta
Che Cristo diede per i peccatori
Il poeta critica dunque il fatto che, a suo avviso, la Chiesa – rappresentata dal cappellano – non manifesti la carità che dovrebbe caratterizzarla e sia manchevole di amore, quell’amore che Wilde – ci dice – ci rende colpevoli nel disonorarlo: «Ogni uomo uccide ciò che ama», questa è la sentenza più potente e più straziante di tutte, che mette l’uomo di fronte alla sua più dolorosa responsabilità, senza per questo motivo dover pagare con la propria vita.
Troppo poco si ama, o troppo a lungo;
C’è chi vende l’amore e chi lo compra,
Chi commette il delitto lacrimando
E chi senza un sospiro:
Poiché ogni uomo uccide ciò che ama,
Ma non per questo ogni uomo muore.
Oscar Wilde non uscì mai più con questo nome da quella prigione: ne riemerse prima come C.3.3, poi come Sebastian Melmoth, appellativo scelto per il rimando cristiano (il martire San Sebastiano) e per il riferimento a Melmoth l’errante (Melmoth the Wanderer, romanzo di Charles Robert Maturin, tra l’altro prozio di Wilde). E come un martire, Wilde si è reso testimone dell’amore e della morte.

Lucia Cambria
Siciliana, laureata in Lingue e letterature straniere e in Lingue moderne, letterature e traduzione. Particolare predilezione per la poesia romantica inglese e per la comparatistica. Traduttrice di prosa e versi, nel 2020 ha trasposto in italiano per Arbor Sapientiae il romanzo "L’ultimo uomo" di Mary Shelley.