L’opera che, nel panorama della letteratura trecentesca, inaugura un vero e proprio genere – quello dei “libri di viaggio” – è sicuramente Il Milione di Marco Polo. Nata durante gli anni di prigionia che seguirono alla cattura di Marco Polo, nel corso di uno scontro navale fra Veneziani e Genovesi, l’opera fu dettata a Rustichello da Pisa il quale scrisse utilizzando la lingua più diffusa del tempo (dopo il latino): la lingua d’oil. Conosciuto inizialmente come Divisament dou monde, il titolo Il Milione si riferisce al nomignolo di Emilione con cui veniva designato Marco Polo. Si tratta di una rassegna di popoli e paesi asiatici, soprattutto del Catai, che Polo ebbe la possibilità di osservare. Egli apparteneva – infatti – a una famiglia di mercanti e viaggiatori e, proprio durante una missione, portata a termine dal padre e dallo zio, giunse alla corte di Kublai Kan, il capo dei Tartari. Accolto benevolmente da quest’ultimo, Polo svolse missioni diplomatiche per suo conto ed ebbe modo, così, di conoscere nuove regioni e civiltà. Ciò spiega l’origine di tanta colorita descrizione di usi e costumi curiosi, di credenze e superstizioni, oltre che di notizie di carattere commerciale.
Fin dal proemio, l’opera offre numerosi motivi di interesse. I suoi destinatari sono, innanzitutto, i grandi personaggi della storia e, in generale, tutti coloro che sono desiderosi di sapere. Una fascia di pubblico, quindi, che può trovare degli stimoli intellettuali, oltre che dei consigli e delle indicazioni per la pratica commerciale. Si adopera un criterio oggettivo nella descrizione dei contenuti – dei quali nessuno prima aveva avuto conoscenza – che abbandona la tradizione celebrante le autorità non verificate e accerta invece i fatti, basandosi sul principio della loro osservazione e preoccupandosi – peraltro – di distinguere «quelle cose le quali elli non vide, ma udille da persone degne di fede, e però le cose vedute dirà di veduta e ll’altre per udita» e di rispettare cronologicamente gli eventi, suggerendo anche una prospettiva storica. Il Polo, nel raccontare la “verità”, sembra avere il passo di un moderno antropologo: non si meraviglia di certe curiose abitudini né ne resta stupito. Si limita, quindi, a registrare i fatti; ed è proprio questo suo realismo che introduce un profondo mutamento nella dimensione conoscitiva dei suoi contemporanei e che inaugura un nuovo genere in cui non trovano più spazio le semplificazioni del passato.

Monica Di Martino
Laureata in Lettere e laureanda in Filosofia, insegna Italiano negli Istituti di Istruzione Secondaria. Interessata a tutto ciò che "illumina" la mente, ama dedicarsi a questa "curiosa attività" che è la scrittura. Approda al giornalismo dopo un periodo speso nell'editoria.