«O misere menti degli uomini, o animi ciechi!
In quale tenebrosa esistenza e fra quanto grandi pericoli
si trascorre questa vita così breve!»
Troviamo questa sconsolata esclamazione nel proemio del II libro del De rerum natura di Lucrezio, poeta latino che visse tra il 98 e il 55 a.C. e che – stando a quel che ci riferisce San Gerolamo – morì suicida a 44 anni, divenuto folle per un filtro d’amore. Il De rerum natura è un poema in sei libri in cui Lucrezio espone la filosofia epicurea; una scelta, quella della poesia, sulla quale Epicuro aveva espresso severe critiche e che Lucrezio giustifica con una magnifica e celebre similitudine: voler esporre in versi la dottrina epicurea così come i medici, nell’atto di somministrare ai bambini una medicina amara, cospargono di miele l’orlo della tazza. L’originalità dell’operazione letteraria compiuta dal poeta emerge fin dal proemio, che si apre con una preghiera rivolta a Venere, la dea dell’amore e del piacere. Dopo l’inno, fa seguito l’elogio di Epicuro.
L’opera può essere strutturata in tre gruppi – che trattano argomenti fisici, antropologici e cosmologici – ma è soprattutto la lotta della ragione contro le tenebre dell’ignoranza che Lucrezio vuole sottolineare, specie di fronte alla stoltezza di chi ignora il messaggio epicureo. La natura richiede semplicemente assenza di dolore, una condizione che si può ottenere appagando i bisogni; il piacere consiste nell’assenza o nella cessazione del dolore e la felicità coincide con l’assenza di paure e azioni che possano alimentare turbamento. Per questa via, Lucrezio condanna tanto l’ambizione politica e la lotta per il potere – poiché la scelta migliore è quella di vivere isolati – quanto la guerra e la passione amorosa, la quale rende folli e schiavi del volere altrui. La paura degli dei, invece, nasce dall’errata convinzione che essi facciano parte del nostro mondo: gli dei, sostiene Lucrezio, vivono semplicemente incuranti delle vicende umane.
Desta particolare perplessità il fatto che quest’opera, scritta per liberare gli uomini dalle paure, abbia come epilogo la descrizione della peste di Atene; ciò induce a ritenere da una parte che l’opera sia incompleta, dall’altra che la depressione di cui avrebbe sofferto avrebbe offuscato le sue adesioni epicuree. Quale che siano le ragioni, la conclusione dell’opera è pur sempre il trionfo della dottrina epicurea e l’affermazione del fatto che l’unica luce vittoriosa in un mondo dominato dal male e dalla violenza sia la ragione.

Monica Di Martino
Laureata in Lettere e laureanda in Filosofia, insegna Italiano negli Istituti di Istruzione Secondaria. Interessata a tutto ciò che "illumina" la mente, ama dedicarsi a questa "curiosa attività" che è la scrittura. Approda al giornalismo dopo un periodo speso nell'editoria.