LetteraturaPrimo PianoTeatro e DanzaL’opera drammatica di Samuel Beckett e il rifiuto di ogni determinazione in Costantin Noica

Laura Fontanesi19 Gennaio 2020
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Samuel Beckett e la sua ferace produzione drammatica si sono rivelati estremamente ostici da decodificare nella loro ermetica immediatezza, violentemente astratti, ostili a qualsivoglia durevole tentativo interpretativo. Opera antesignana di una necessità letteraria contemporanea: il rifiuto perentorio di ogni determinazione. Il filosofo dacio Costantin Noica, infatti, ascrive la suddetta negazione a un morbo ontico, celato ma alquanto manifesto a un osservatore acuto e costituente lo spirito umano, da egli denominato “ahoretia”. Il termine “horos” in greco significa “determinazione” e la patologia causata dal rifiuto assoluto di ogni determinazione umana è inevitabilmente destinata a condurre all’apodittica conclusione che ogni manifestazione individuale, tra cui va annoverata la comunicazione, potrebbe essere indeterminata, ergo non significare nulla e di conseguenza non esistere, non essere.

La parola cerca di identificare i protagonisti beckettiani, avulsi da una contestualizzazione spaziale o temporale, asserragliati e coartati dietro il proprio massiccio e invalicabile «muro» individuale. Un intento costantemente disatteso, nel vano tentativo di colmare il vuoto circostante, di cui essi rappresentano gli inermi spettatori. Essi sono stati privati da ogni motilità d’azione, depauperati da qualsivoglia tentativo di irradiazione comunicativa, ma si mantengono irriducibili nell’ostinata volontà di perseverare, esistere, essere, almeno nella fittizia apparenza. Esasperati, assidui pupazzi in frantumi. Noica, nel proprio saggio Sei malattie dello spirito contemporaneo, riconduce tale disagio alla contemporanea – ed estremamente attuale – «libertà di poter fare qualunque cosa», la quale però può condurre la sprovveduta creatura umana a un’irremeabile angoscia, «alla tortura di non sapere esattamente cosa si debba fare». Una sorta di monito, invero: il rischio è identificabile nella limitazione del non essere, funestamente in agguato.

Estragone e Vladimiro, protagonisti della “pièce” teatrale Aspettando Godot, respingono dunque qualsivoglia determinazione, ma l’individualità si rivela vuota, nulla rimane più loro da fare se non attendere spasmodicamente e inutilmente Godot, il fatuo principio di ordine “generale”, cui rimangono inesorabilmente vincolati.

 

Estragone. (inquieto). E noi?
Vladimiro. Prego?
E. Dico, e noi?
V. Non capisco.
E. Qual è la nostra parte in tutto questo?

Samuel Beckett, Aspettando Godot

 

La realtà si palesa disgregata, disciolta, venendo inesorabilmente privata di ogni significazione, disuggellata innanzi all’ignaro testimone. L’uomo, nudo, viene implacabilmente posto di fronte all’inesplicabilità della propria condizione.

 

Hamm. Non può darsi che noi… che noi… si abbia un qualche significato?
Clov. Un significato! Noi un significato! (Breve risata) Ah, questa è buona!

                Samuel Beckett, Finale di partita

 

Un’agnizione irrimediabilmente destabilizzante. L’uomo si ritrova solo, smarrito, privato dall’usbergo dell’abituale rassicurante condizione. Non esiste un fine, non vi è alcuno scopo. Sopravvive la lancinante speranza, un’attesa ineluttabilmente e perennemente tradita. Rimane solo un labile e amaro sentore, un impedimento indistinto – inconosciuto ma indefesso – al lasciarsi andare. Il tempo muto trascorre inesorabile, conducendo a un non essere reale e tangibile. Fango e requie. L’uomo si ritrova smarrito, privato dalla necessità di conferire e conferirsi un senso, di infondere un’utilità a se stesso, di trovare qualcosa che gli possa garantire la sensazione di esistere davvero, che gli possa consentire una reale percezione di sé. Istoriare con una parvenza di diversità ciò che si ripresenta costantemente uguale a se stesso, ciclico, identico. Giorno dopo giorno.

Le figure di Beckett, in qualche modo, sono accomunate da un esasperato agnosticismo, hanno una cognizione sopita della propria condizione che – nell’istante stesso in cui viene avvertita – respingono subitaneamente. Essi galleggiano in una nepente gora, soffocano – volontariamente o meno, non ha rilevanza alcuna – ogni sporadica favilla di dolorosa coscienza nell’inadeguata e banale materialità di ciò che li circonda. Non resta loro che smarrirsi nella futile utilità degli oggetti, ristorarsi nella loro placida staticità per trovare finalmente un sollievo dalla propria precaria condizione.

 

Winnie. […] Che cosa farei, io, che cosa potrei mai fare, tutto il giorno, voglio dire, tra il campanello del risveglio e quello del sonno. (Pausa). Soltanto guardare davanti a me con le labbra serrate. (Lunga pausa mentre esegue. Smette di strappare l’erba). Non una parola di più finché mi restasse fiato, nulla per rompere il silenzio di questo posto. (Pausa). Salvo forse, di tanto in tanto, una volta ogni tanto, un sorriso nello specchio. (Pausa). Normalmente lo faccio. (Pausa). C’è così poco che si possa fare. (Pausa). Che lo si fa tutto. (Pausa). Tutto quel che si può. (Pausa). È umano. (Pausa). La natura umana. (Pausa). Umana debolezza. (Riprende a ispezionare il monticello, poi rialza la testa). Debolezza naturale.

               Samuel Beckett, Giorni felici

 

Per Noica, l’imprescindibile condizione identificata in tale ambasciata situazione – l’azione intrinseca – è rappresentata dal non agire, il non atto, non volersi dare delle determinazioni terrene perché considerate insufficienti. Egli paragona il rifiuto peculiare dell’”ahoretia” alla «superiore e lucida tendenza a ritirarsi dal mondo». Dunque un ponderato rifiuto nei confronti di qualsivoglia umana determinazione, in quanto considerata inadeguata. Una tendenza che accomuna – nella tradizione occidentale – i filosofi Stoici e gli asceti, entrambi protesi verso un innalzamento interiore al di sopra di sé, grazie a un’atarassica comprensione del generale e del mondo circostante.

Beckett, in accordo alla filosofia espressa da Noica, sembra rinunciare a un’immediatezza comunicativa del linguaggio – circoscritto e limitante – oltrepassandolo, in un mondo decisamente esiguo e svilente che ha però la presunzione di proclamarsi quale «ordine razionale e che, ormai, neppure cerca più di darsi giustificazioni filosofiche». In tale contesto Beckett riesce ugualmente e senza alcuna velleità di scopo, con un linguaggio e protagonisti decisamente desueti, a dar voce a un’insoddisfazione individuale che annichilisce, ma che riesce a mantenersi ferreamente e inconsciamente resiliente e refrattaria a qualsivoglia giudizio esterno.

Laura Fontanesi

Archeologa, specializzata in archeologia classica e del Vicino Oriente antico, studiosa di culti antichi e tradizioni funerarie. Affascinata da parole, storie e arcaici numi. Ama scrivere, ascoltare, leggere, approfondire, progettare, creare.