La morte è un tema imperante nella letteratura di tutti i tempi: ogni epoca e ogni scrittore hanno però avuto delle visioni diverse riguardo questo inevitabile fatto della vita degli esseri viventi. Durante l’epoca Romantica, in particolare, si sono sviluppati nuovi processi di pensiero riguardo ai concetti di vita e di morte e, soprattutto, sulle interconnessioni tra i due. La vita e la morte risultano annodati tra di loro e le loro fibre, intessute insieme, compongono un arazzo dalle varie tinteggiature, presente in gran parte delle opere di questa fase letteraria.
Questo è esattamente il quadro che tracciò Robert Southey in una sua poesia dal titolo My Days among the Dead are Past (Sono passati i miei giorni tra i morti). Qui il poeta si identifica nella sensazione di passare più tempo coi morti che coi vivi: egli cammina tra loro, parla con loro e si include anche nella loro schiera. Li considera punto di riferimento e ragiona sul fatto che il suo futuro – tutta l’eternità – dovrà passarlo con loro.
Southey (1774-1843), nato a Bristol, venne educato alla Westminster School di Londra ma venne espulso per aver scritto un articolo nel quale sosteneva che la flagellazione fosse invenzione del demonio. Imparentato con Samuel Taylor Coleridge, in quanto sposò sua cognata, pubblicò la prima raccolta di poesie nel 1794. Fu uno scrittore prolifico e anche storico, biografo (introdusse per primo, nella lingua inglese, il termine “autobiography”) e autore di storie per bambini: la più celebre è la favola Riccioli d’oro e i tre orsi.
Southey fu, quindi, uno scrittore di biografie, un cronista e narratore di vite e, inevitabilmente, anche di morti. Ed è proprio quello che cerca di farci sapere nella poesia My Days among the Dead are Past, nella quale traspare un’esistenza trascorsa tra ciò che non è più, in mezzo a un prolificarsi di giorni perduti. Eppure, proprio le vite non più vite sono quelle che hanno formato il poeta, che lo hanno indotto ad amare il passato per ricostruire un presente:
«Sono passati i miei giorni tra i morti;
osservo attorno a me questi sguardi distratti,
le possenti menti degli antichi;
essi sono amici miei fedeli
coi quali converso ogni giorno»
Abbiamo qui davanti l’immagine di un uomo legato al passato, che si ostina a essere parte di quei tempi andati. Addirittura dice di parlare con questi defunti ogni giorno, come se questi fossero ormai dei confessori. E allora potremmo immaginarci questo poeta vagare tra le pietre tombali, lasciandosi trasportare in mondi e luoghi mai vissuti, con la consapevolezza che solo così potrà conoscere il senso delle cose. Nelle sue conversazioni coi morti può anche trovare conforto, come se si rivolgesse a un padre:
«E intanto comprendo e avverto
quanto a loro io sia debitore»
Il poeta ambisce a imparare da quei padri vissuti e morti per costruire il futuro dei loro successori. L’ultima stanza esprime un desiderio, quasi un’impazienza di trovarsi presto nella schiera di coloro che vissero e che, da morti, sono divenuti un monumento alla vita vera, vissuta con virtù:
«Le mie speranze sono con i morti, preso
il mio posto sarà con loro,
e con loro potrò viaggiare
attraverso l’eternità;
lascio qui un nome e auspico
che non si perda nella polvere»
Il poeta sa che presto si unirà a quel mondo che ha tanto ammirato, è consapevole che prima o poi non guarderà più da lontano i morti, poiché sarà anch’egli uno di loro. La riflessione di Southey induce il lettore all’amara quanto assodata verità che è tra i morti che l’uomo “vive” per più tempo. Ed è così che l’arazzo di fibre di morte e di vita è completo: non si distinguono più le une dalle altre.

Lucia Cambria
Siciliana, laureata in Lingue e letterature straniere e in Lingue moderne, letterature e traduzione. Particolare predilezione per la poesia romantica inglese e per la comparatistica. Traduttrice di prosa e versi, nel 2020 ha trasposto in italiano per Arbor Sapientiae il romanzo "L’ultimo uomo" di Mary Shelley.