LetteraturaPrimo PianoL’importanza della fiaba secondo Italo Calvino

Adele Porzia3 Giugno 2021
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Le Lezioni americane – che Italo Calvino ha tenuto tra il 1985 e il 1986 presso l’Università di Harvard, poi pubblicate postume dalla moglie nel 1988 – sono un vero e proprio manifesto della modernità, uno spartiacque tra due epoche diverse e tra due letterature che mutavano per sempre le proprie regole. Italo Calvino, quale attento osservatore della realtà, avanzava Sei proposte per il nuovo millennio, come recitava il sottotitolo dell’edizione Garzanti: delle linee di sopravvivenza della narrativa e del romanzo in quell’anno 2000 che si stava per affacciare. La sua preoccupazione principale era legata alla fiaba: come potrà sopravvivere questa florida tradizione orale, in un mondo privo di memoria e sempre più tecnologico, dominato da macchine e intelligenze artificiali, nonché dalla televisione, tramite la quale incessanti immagini prefabbricate giungono dall’esterno, in contrasto con la facoltà dell’immaginazione?

Nella fiaba, c’è sempre chi racconta e chi ascolta e, così facendo, il legame che si crea consente che le parole usate, pur mutando, non cambino la sostanza del racconto. Si ha la percezione, così, di sentire una storia sempre diversa, nonostante la materia narrata non muti. Si creano, talvolta, delle splendide varianti che vanno ad arricchire ulteriormente la narrazione. Quello che Calvino temeva (e a ragion veduta) era che questa immensa tradizione finisse per sempre perduta. Cosa inevitabile, nel mezzo di una società basata del tutto sulla scrittura e sulla lingua italiana, molto più che sui dialetti, in cui molte fiabe erano state per forza di cose trasmesse.

La fine dell’oralità era un passaggio obbligato in questa nuova società, e perciò era necessario che la materia fiabesca abbandonasse la sua natura aleatoria e si convertisse nella forma scritta. A salvarsi sarebbe stata la tradizione del popolo, una classe sociale che, non sapendo leggere, affidava storie e valori all’oralità, perché venissero tramandati. Calvino voleva, quindi, recuperare e salvaguardare la cultura nazional-popolare di stampo italiano, cercando il più possibile di non perdere la lingua dialettale di partenza e quel tono affascinante legato all’oralità.

Convertire la materia magmatica delle fiabe era davvero un lavoro difficilissimo per Calvino, che scrive nell’introduzione ai suoi due volumi di Fiabe italiane di essere «esposto a tutti i malesseri che comunica un elemento quasi informe, mai fino in fono dominato coscientemente come quello della pigra e passiva tradizione orale». L’obiettivo era, però, mettere su «la gran raccolta delle fiabe popolari di tutta Italia», cercando per quanto possibile di salvaguardarne la specificità regionale, e costituire un «libro anche piacevole da leggere, popolare per destinazione e non solo per fonte». Quindi, a quello che era un pubblico di ascoltatori si sostituisce un gruppo di lettori.

Eppure, tale operazione comporta un problema che non si può ignorare: mettendo per iscritto quello che è stato da generazioni destinato alla forma orale, Calvino priva la popolazione analfabeta e semianalfabeta della sua tradizione, convertendolo in una forma di ricezione che non appartiene a questa classe sociale, ma alla borghesia. Così come, sostituendo l’uditorio con un gruppo di lettori, destina tale forma interamente alla classe borghese, contribuendo a un fenomeno di borghesizzazione della realtà. Calvino, pur essendone consapevole, porta avanti questa operazione perché sa che si tratta di un fenomeno inevitabile. Eppure, non poteva permettere che la fluidità espressiva delle fiabe, la bellezza del mondo contadino, questo delizioso e straordinario circuito narrativo che esisteva da generazioni, andassero irrimediabilmente perduti.

E perché questo fosse possibile, perché fosse possibile preservare tale preziosissima tradizione, il lavoro dello scrittore non può che essere difficilissimo: dapprima deve scegliere tra moltissime versioni quella più ricca di eventi e spunti; tradurre in italiano i dialetti, pur mantenendo la freschezza della narrazione e la sua particolarità regionale; arricchire le fiabe scelte con le varianti più diffuse o più avvincenti; integrare quei punti oscuri o poco chiari, cercando di intuire i particolari sottesi; incorporare nella lingue quelle immagini tipiche del dialetto, evitando espressioni colte. Un’operazione, quindi, filologica, eppure assolutamente necessaria.

Lo scrittore era convinto che in un’epoca così diversa dalle precedenti, si necessitasse di un «viaggio tra le fiabe», al fine di scoprire nuove versioni della realtà, di non dimenticare il mistero che si cela dietro i grandi e piccoli eventi umani. «Le fiabe sono vere», vere in quanto sono «prese tutte insieme, nella loro sempre ripetuta e sempre varia casistica di vicende umane, una spiegazione generale della vita, nata in tempi remoti e serbata nel lento ruminio delle coscienze contadine fino a noi; sono il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e a una donna, soprattutto per la parte di vita che appunto è il farsi d’un destino».

Italo Calvino vede nelle fiabe il veicolo di valori profondi, quali l’ordine, l’armonia che la narrazione fiabesca tende a ristabilire e a riportare. Le vicende della sorte, così come quelle dell’eroe, sono equilibratrici e ribaltano l’elemento irrazionale e grottesco che porta scompiglio e disordine. A dominare, quindi, è proprio l’elemento umano in tutte le sue forme.

Adele Porzia

Nata in provincia di Bari, in quel del ’94, si è laureata in Filologia Classica e ha proseguito i suoi studi in Scienze dello Spettacolo. Giornalista pubblicista, ha una smodata passione per tutto quello che riguarda letteratura, teatro e cinema, tanto che non cessa mai di studiarli e approfondirli.