L’ultimo è stato un anno molto fortunato per Matteo Garrone, che con il suo Dogman (2018) ha fatto incetta di premi: dai David di Donatello ai Nastri d’Argento, dall’European Film Festival alla giuria di Cannes, conquistata dall’interpretazione di Marcello Fonte. Il regista romano – senza dubbio tra i protagonisti della recente rifioritura del cinema italiano – ha conosciuto il grande successo nel 2008 con Gomorra, celebre pellicola ispirata all’omonimo romanzo di Roberto Saviano. Tuttavia dobbiamo tornare indietro al 2002 per riscoprire uno dei suoi lavori più riusciti, che rappresenta uno spartiacque nella sua filmografia ed è il primo passo dell’ideale trilogia incentrata su fatti di cronaca nera, di cui fanno parte anche Primo amore (2004) e Dogman: parliamo de L’imbalsamatore.
Garrone prende spunto dalla vicenda del “nano di Termini” Domenico Semeraro – tassidermista e adescatore di fanciulli, ucciso da uno di loro nel 1990 – e se ne discosta per dare vita a Peppino Profeta: un personaggio dalle mille sfaccettature, interpretato da un eccellente Ernesto Mahieux, premiato con il David per il miglior attore non protagonista. A fare da sfondo, invece della Capitale, c’è lo stesso Villaggio Coppola (frazione di Castel Volturno) di Dogman e di un’altra ottima pellicola del 2016, Indivisibili di Edoardo De Angelis.
La prima scena del film ci mette in guardia: Peppino e il giovane e aitante Valerio (Valerio Foglia Manzillo) si incontrano in uno zoo sotto lo sguardo di un marabù, un uccello africano che si nutre di carogne. Spiegando appassionatamente come l’avvoltoio assalga le sue prede, Peppino mette in moto la sua tecnica di assalto: lui è un abile ammaliatore, che ha scelto di passare la vita a “svuotare” essere viventi per poterne possedere i corpi per sempre e Valerio è tanto bello quanto ingenuo e inappagato, una preda fin troppo arrendevole. In un luogo così fatiscente da sembrare collocato ai confini del mondo, un giovane non ha molte prospettive per il futuro. La generosa offerta di lavoro da parte di Peppino, dunque, sembrerà una manna scesa dal cielo ma, allo stesso tempo, insinuerà nello spettatore un invisibile ma fastidioso senso d’inquietudine.
Dopo una panoramica iniziale sul lavoro di Peppino e su come la sua maestria gli abbia permesso di arricchirsi grazie ad alcuni “lavoretti” commissionati dalla camorra, capiamo che in realtà l’arte della tassidermia e gli affari con la malavita sono soltanto un pretesto per un tipo di esplorazione molto più intima. I minuti passano e tutte le persone intorno a Valerio iniziano a percepire la malizia che si cela dietro la disponibilità di Peppino. Ma il ragazzo, privo di legami affettivi, sembra esserne inconsapevole e riconosce in lui non solo un datore di lavoro ma anche un mentore, un amico, un padre e forse molto di più. L’ambiguità è l’aspetto cardine attorno a cui ruota l’intera pellicola. Peppino è un personaggio in grado di suscitare contrastanti sensazioni: la sua tipica ironia partenopea non può non strappare dei sorrisi ma sono il suo sguardo vigile, la sua suscettibilità, la sua invadenza e il suo finto vittimismo ad avere la meglio, rendendolo un uomo sgradevole e minaccioso. Valerio, dal canto suo, si posiziona sul labile confine tra l’ottusità e l’opportunismo. Apparentemente manipolato da Peppino, viene a volte da chiedersi se non sia piuttosto il contrario: il suo “protettore”, infatti, lo vizia con denaro, regali, donne e festini, conducendolo mano nella mano verso una vita sempre più dissoluta; vita in cui Valerio sembra sentirsi più che a suo agio. Le assillanti attenzioni del nano tassidermista non sembrano turbarlo in particolar modo e Garrone ci lascia solo immaginare quanto in là si sia spinto il loro rapporto.
Improvvisamente, però, una ventata di genuinità giunge a minare la morbosa e ormai solida relazione che si era creata tra i due. Valerio incontra l’esuberante Deborah (Elisabetta Rocchetti) durante un viaggio “di lavoro” a Cremona e, in men che non si dica, la ragazza decide di insinuarsi in quella “coppia” bizzarra in una sorta di “ménage à trois”, ignara delle conseguenze. Se Peppino si mostrerà, in un primo momento, apparentemente ben disposto verso di lei e la sua storia con Valerio, presto arriverà a vederla come una nemica da eliminare a tutti i costi e il confronto tra i due, in riva al mare, rappresenta uno dei momenti più elevati e angoscianti del film. Ci è ormai chiaro che il vortice creatosi debba necessariamente concludersi in maniera violenta. Poco conta il tentativo di Valerio e Deborah di avere una vita “normale”: Peppino è davvero pericoloso, alla stregua di un morbo che, una volta trasmesso, è impossibile da debellare.
Mettendo in scena contorte relazioni umane, il film ci esorta altresì a interrogarci su cosa sia effettivamente giusto e normale: Valerio è costantemente diviso tra il suo desiderio di una vita ordinaria con una donna e la consapevolezza che la stessa non potrà mai renderlo davvero felice. Bastano poche lusinghe e una proposta audace da parte di Peppino a insidiare l’instabile equilibrio costruito con Deborah, la sua famiglia, un lavoro insoddisfacente, una nebbiosa Cremona e un bimbo in arrivo. Sono gli eventi a decidere per lui, e la scena finale non fa altro che lasciarci una serie di interrogativi: ci troviamo effettivamente di fronte a un lieto fine? Valerio potrà finalmente sentirsi libero o il suo spirito è ormai irreparabilmente corrotto?
Garrone intraprende con L’imbalsamatore un percorso che lo porterà alla vetta del cinema italiano contemporaneo e realizza un notevole neo-noir, il cui sguardo si concentra sui vincoli tra gli esseri umani e su quanto questi possano spesso essere autodistruttivi. L’oscurità dei suoi protagonisti si riflette nei chiaroscuri degli spazi interni e lo scenario quasi post-apocalittico della periferia casertana – marcato dalla fotografia dai toni freddi di Marco Onorato – è esso stesso attore primario del film, tanto degradato quanto suggestivo: i ruderi che si affacciano sul mare sembrano riflettere l’animo dei personaggi, tesi a raggiungere l’eterna bellezza pur consapevoli di essere interiormente demoliti e contaminati.

Nadia Pannone
Basta poco a renderla felice: un buon film, un po' di musica anni Ottanta, una libreria, qualche conversazione stimolante, un lago, delle luci al neon, una piazza deserta e assolata, delle foto vintage, una coperta e un buon caffè.