Del vetro veneziano si conoscono le formidabili qualità e la straordinaria maestria con la quale gli artigiani veneziani, a partire dal Duecento, crearono delle vere opere d’arte uniche al mondo. Dai mosaici ai vetri soffiati e alle coppe, il vetro è da sempre un materiale versatile che si presta sia alle lavorazioni più preziose e complesse che agli impieghi più umili, come gli oggetti d’uso comune.
Si tratta di un materiale completamente artificiale, la cui scoperta è fatta risalire ai Fenici, come sostiene Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia, in cui narra che alcuni mercanti – carichi di soda – accesero il fuoco sulla sabbia, in prossimità del fiume Belo in Siria, accorgendosi – il giorno successivo – della formazione di una materia trasparente e lucente. Più probabile, invece, è che il vetro sia l’esito di una serie di esperimenti compiuti fin dalla metà del III millennio a.C., in Mesopotamia, Egitto e Siria, dove sono state ritrovate le più antiche tracce della sua lavorazione. Dal X secolo a.C. il vetro iniziò a diffondersi nei Balcani e in Europa meridionale, fino a raggiungere, in età ellenistica (IV-I secolo a.C.), tutto il Mediterraneo.

Furono i romani a dare alla produzione del vetro nuovo impulso e la più ampia diffusione. Al I secolo a.C. risalgono l’invenzione, in Palestina, della tecnica della soffiatura, che sostituì laboriosi procedimenti di colatura a caldo e la creazione del vetro incolore. Tra il II e III secolo d.C. le produzioni di vetro soffiato e a stampo furono ulteriormente perfezionate.

Composto solido amorfo, il vetro è costituito da un vetrificante – la salice, ottenuta da ciottoli quarzosi o sabbia – e un fondente, la sostanza in grado di abbassare il punto di fusione della massa vetrosa. Nella vetraria egizia, in quella romana e nel vetro veneziano, il fondente è la soda ottenuta dalle ceneri calcinate di alghe e piante marine. Con questi componenti, infornati alla temperatura di 1200-1400 gradi, si ottiene la cosiddetta “fritta”, cioè il risultato della prima fusione; in seguito la massa vitrea viene integrata con sostanze dette affinanti (coloranti, rottami di vetro lavato), infornata nuovamente e infine lavorata. Il vetro sodico, a differenza di quello piombo-potassico, è detto “vetro lungo”, perché rimane plastico per molto tempo, consentendo le lunghe lavorazioni di soffiatura e modellazione, tipiche della vetraria antica e della produzione muranese.
L’ arte vetraria veneziana nasce dai profondi contatti con il Medio Oriente, in particolare con la Siria, i cui vetri – sofisticati e raffinati – erano celebri nel Medioevo. I primi vetrai veneziani li imitarono e inoltre importarono da quell’area anche alcune materie prime per realizzarli. Nel XIV secolo la produzione veneziana era ben avviata, con almeno dodici vetrerie che soffiavano oggetti d’uso comune, ma è dalla metà del Quattrocento che Venezia, complice il declino della produzione islamica, ebbe la vera supremazia nell’arte del vetro.
La vera svolta è determinata anche dall’invenzione del vetro cristallino, dovuta al muranese Angelo Barovier (1405-1460), grazie al quale per la prima volta si creò un vetro purissimo, trasparente, simile al cristallo di rocca. I vetri muranesi trasparenti, decorati con smalti policromi fusibili e oro, furono richiesti da grandi famiglie, dai dogi e persino dal Papa; ci fu, dunque, una grandissima richiesta dal mercato artistico che va dal XV fino alla fine del XVII secolo, dovuta proprio alla varietà di decorazioni – che a volte riprendono temi propri dell’iconografia rinascimentale – e tipologie che resero questa arte particolarmente preziosa. Uno splendido esempio è la celebre coppa Barovier del 1460 creata dall’omonimo artista come dono di nozze, oggi conservata presso il Museo del Vetro di Murano di Venezia.

Una delle tecniche ornamentali più interessanti è la decorazione a pinze, eseguita sull’oggetto che aveva raggiunto la sua forma definitiva, pur essendo ancora alla temperatura di lavorazione (circa 500 gradi). Il manufatto veniva staccato dalla canna da soffio e attaccato a una canna detta pontello per le operazioni di rifinitura che potevano essere limitate alla definizione del bordo dell’oggetto o all’applicazione di anse e decorazioni fatte a cordoncino intrecciato e modellato, spesso molto complesse.
Per eseguire queste rifiniture il vetraio usava delle particolari pinze di ferro per stringere e pizzicare i vari ornamenti ancora allo stato plastico. Oltre a questa tecnica, nel Cinquecento era particolarmente gradito il “vetro a ghiaccio”, così detto per la sua somiglianza con il ghiaccio screpolato. Questo effetto è ottenuto immergendo il pezzo semilavorato in acqua fredda e poi di nuovo nel forno; in questo modo gli sbalzi di temperatura provocano delle screpolature. Il pezzo in seguito veniva ulteriormente soffiato per raggiungere la forma definitiva e lucidato a caldo per rendere omogenee le spaccature. L’effetto “ghiacciato” è dato anche dai toni biancastri del vetro che in questo modo opacizza leggermente. Le forme adatte a questo materiale erano quelle più semplici: ciotole, alzatine lisce e secchielli che potevano avere delle essenziali decorazioni in vetro acquamarina o in cristallo lavorato a cordoncino.

Una delle più affascinanti creazioni muranesi è la filigrana, inventata da Filippo Catani della Sirena (o Serena) verso il 1527, ottenuta incorporando in vario modo nel cristallo canne di vetro contenenti sottili fili di vetro bianco (lattimo) o colorato, a fascette parallele o intrecciate. È una tecnica assai complessa, ancora oggi di grande successo.

Anna D’Agostino
Classe '93, laureata in Storia dell'Arte con una tesi in Museologia sull'arredamento dell'Ambasciata d'Italia a Varsavia dalla quale è scaturita una pubblicazione in italiano e polacco. Prosegue la ricerca inerente l'arredamento delle Ambasciate d'Italia nel mondo grazie a una collaborazione con la DGABAP del Mibact. É iscritta al Master biennale di II livello "Esperti nelle Attività di Valutazione e di Tutela del Patrimonio Culturale".