LetteraturaPrimo PianoLe vicende mitiche di Micene, la “città dell’oro”

Adele Porzia26 Maggio 2022
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«Rivestì di bronzo lucente e per prima cosa intorno alle gambe adattò le gambiere, belle, rinforzate d’argento sulle caviglie, poi allacciò intorno al petto la corazza che un giorno gli aveva donato Cinira re di Cipro; aveva dieci strisce di smalto nero, dodici d’oro, venti di stagno, serpenti di smalto azzurro si snodavano verso il collo, tre da ogni lato, simili all’arcobaleno che Zeus dispone sopra le nuvole come segno d’augurio per i mortali. Assicurò alle spalle la spada ornata di borchie d’oro, d’argento era il fodero, sollevò lo scudo grande e possente, lavorato, stupendo: dieci cerchi di bronzo vi correvano attorno e al centro c’erano dieci borchie di stagno, lucenti e nel mezzo una di smalto nero».

Così si apre l’XI libro dell’Iliade, con una descrizione straordinaria del bronzo luccicante con cui gli eroi omerici entravano in battaglia e, in questo particolare caso, siamo di fronte al momento della vestizione di Agamennone, il grande condottiero di Micene. Il suo potere certamente si estendeva a buona parte della Grecia, poiché nel poema omerico arriva a promettere all’irato e offeso Achille ben sette città in suo possesso, pur di farlo tornare a combattere. Ma, naturalmente, non era tra queste la sua Micene, la “città dell’oro”, espugnata nel 468 a.C. dalla ben più forte Argo, al di fuori dei confini della legenda. Di questa città non restava che «qualche brandello di muro», direbbe Giuseppe Ungaretti, e di quell’oro che anticamente l’attorniava non rimaneva che qualche pascolo, colmo di sassi e brulle alture, ai tempi del suo scopritore Heinrich Schliemann. Eppure, tale era anche lo spettacolo di cui godeva Pausania parecchi secoli prima, segno che ormai si fosse spenta da secoli la grande civiltà degli infrangibili guerrieri omerici, uomini duri incuranti della vita se quest’ultima li teneva lontani dalla fama e dalla gloria della morte.

Micene, secondo il mito, fu fondata da Perseo, l’eroe che tagliò la testa di Medusa, la più terribile delle tre Gorgoni, perché con uno sguardo era in grado di pietrificare i nemici. Qui, nella città aurea, regnò Euristeo, nome celebre per qualche specialista, ma sconosciuto se paragonato al suo nemico Eracle, cui impose le ben note dodici fatiche. Come è possibile, ci chiederemmo, che qualcuno potesse imporre a un semidio prove tanto ardue? Effettivamente, Eracle, seppur dotato di una forza sovrumana e figlio di Zeus, non era il solo discendente del padre degli dei, poiché anche Euristeo aveva il suo bel grado di parentela.

Zeus non era certo un marito devoto e, quindi, tradiva spesso sua moglie Era, senza che nessuno potesse dire nulla in contrario, in primis la stessa Era che, non potendosela prendere con il suo caro sposo, rivolgeva altrove la propria furia. Ed Eracle era uno dei tanti che subì l’ira della regina degli dei. Infatti, accadde che Zeus, dopo aver messo incinta Alcmena con le sembianze di suo marito Anfitrione, si vantò in presenza della moglie che, di lì a poco, sarebbe nato il più grande degli eroi, che avrebbe regnato su tutti i popoli vicini, divenendo re di Micene. Era, giustamente indispettita, evocò il dio Ate (il cui nome è traducibile in “accecamento”) perché distraesse Zeus, mentre lei accelerava il parto della moglie di Steneleo, figlio di Perseo, a sua volta figlio del padre degli dei. Nacque, quindi, Euristeo prima di Eracle e fu eletto re di Micene, come Zeus aveva promesso. Questi si infuriò con Ate e lo gettò dall’Olimpo, ma ormai era tardi ed Eracle fu costretto a servire il suo nuovo re.

Euristeo era, però, un codardo e non appena Eracle rientrava dalle sue prove terribili con qualche selvaggia e temibile creatura – come il cinghiale dell’Erimanto, vivo e mostruoso più che mai – si nascondeva nei sotterranei della città e parlava con l’eroe attraverso un araldo. Una volta morto Eracle, Euristeo inseguì e perseguitò i suoi figli, finché gli Ateniesi non sconfissero e uccisero il re di Micene. E a quel punto, il solo problema era appunto trovare un successore. E qui la città dell’oro intreccia le sue vicende con Olimpia, città maestosa dove si svolgevano le Olimpiadi. Qui si erano uniti in matrimonio Ippodamia e Pelope. Dai due nacquero due figli, Atreo e Tieste, versioni decisamente più violente e sanguinarie di Caino e Abele. Sempre due fratelli, ma animati da una rivalità che si spinse ben oltre i limiti del consono.

Atreo, divenuto re grazie a un auspicio divino, sposò Erope, ma Tieste la prese con violenza, tagliandole la lingua perché non potesse parlare. Eppure, il fattaccio fu rivelato da un arazzo che la moglie cucì per avvertire il marito. E questi non la prese bene, tanto da affettare i figli di Tieste e servirli al banchetto al padre, che aveva evidentemente molta fame dato che divorò tutto con gusto e si complimentò col cuoco. Poi il fratello mostrò le teste dei figli e l’entusiasmo si spense. Ma non è di certo finita qui: Tieste fu mandato in esilio con la figlia Pelopia, con cui si unì in un rapporto incestuoso, portando alla luce Egisto, il vendicatore di Tieste o, meglio, il futuro assassino di Agamennone, che era quel condottiero che trionfò nella Guerra di Troia, re di Micene e di cui Omero ha descritto l’outfit pre-battaglia.

Infatti, Atreo ebbe due figli, Agamennone e Menelao. Il primo sposò Clitennestra, il secondo Elena, che provocò la guerra di Troia, scappando con Paride (o, meglio, venendo rapita dal principe troiano). Quando vinse la guerra e tornò trionfante a casa, Clitennestra finse entusiasmo e poi lo ammazzò con un’ascia mentre faceva il bagno. Lei, infatti, odiava il marito perché aveva sacrificato la figlia, Ifigenia, per proseguire la spedizione contro Troia. Clitennestra, per il dolore e l’astio nei confronti del marito, si unì proprio con Egisto. Intanto, ammazzato Agamennone, Oreste – un altro figlio di questo disastrato matrimonio – tornò e ammazzò madre e zio, non senza pentimenti e moti interiori che, tuttavia, non furono sufficienti a farlo desistere. Il mito prosegue e si interseca con le vicende di Atene, in un interminabile intrecciarsi di storie, moltissime delle quali meriterebbero di essere raccontate. Per ragioni di spazio, non possiamo farlo, ma c’è tutto un mondo da scoprire e quelle che per noi sono solo vicende lontane, erano fatti risaputissimi per quei greci – nostri parenti, antenati illustri – che hanno sempre tanto da dirci e insegnarci. Per esempio, chiedere al cuoco cosa stiamo per mangiare.

Adele Porzia

Nata in provincia di Bari, in quel del ’94, si è laureata in Filologia Classica e ha proseguito i suoi studi in Scienze dello Spettacolo. Giornalista pubblicista, ha una smodata passione per tutto quello che riguarda letteratura, teatro e cinema, tanto che non cessa mai di studiarli e approfondirli.