La caccia ha accompagnato l’umanità lungo tutta la sua storia, rappresentando l’oggetto e la ragion d’essere delle prime innovazioni tecnologiche ma anche condizionando profondamente la mitologia, le religioni e le manifestazioni artistiche dei popoli del passato. Questa attività richiedeva un’elevata conoscenza del comportamento e delle abitudini delle diverse specie animali, soprattutto se la loro cattura e uccisione dovevano aver luogo a breve distanza. Negli stadi culturali del Paleolitico la caccia, insieme alla raccolta, ha garantito la sopravvivenza e l’evolversi del nostro genere fino alla “rivoluzione” del Neolitico, quando l’Uomo diventò agricoltore e allevatore relegando la sua capacità predatoria in secondo piano.
Testimonianze archeologiche dirette della pratica venatoria sono, ad esempio, incisioni e pitture rupestri – eseguite con l’ocra, la polvere di carbone o l’ossido di manganese – che raffigurano bisonti, cervi, stambecchi colpiti da frecce e lance oppure scene di caccia collettiva condotta da uomini armati con arco e frecce. Queste opere d’arte sono conservate in numerose grotte d’Europa, soprattutto in Francia e in Spagna, e risalgono ad almeno 30.000 anni fa.
Eccezionali sono invece i ritrovamenti di archi e frecce ancora perfettamente conservati nelle torbiere del nordeuropa e della pianura russa; i più antichi sono i frammenti di arco in pino risalenti a 11mila anni fa rinvenuti nelle torbe di Stellmoor, in Germania, assieme a un centinaio di frecce con il loro armamento in selce innestato con la resina di conifera. Altre frecce erano interamente in legno e presentavano un’estremità non appuntita ma bombata o conformata a cilindro, adatta a colpire uccelli e piccoli animali senza danneggiarne il piumaggio o la pelliccia. Punte in pietra, in osso e in palco di cervide – e altri elementi utilizzati per armare lance e frecce – vengono normalmente rinvenute nei livelli archeologici. Il loro studio consente di ricostruirne la tecnica di fabbricazione, osservarne la forma e le dimensioni, ma anche di verificarne l’avvenuto utilizzo. Quest’ultima informazione viene ottenuta osservando i pezzi fratturati e confrontandoli con esemplari simili riprodotti sperimentalmente e, una volta innestati sulle frecce, utilizzati su varie prede o carcasse per verificarne la fratturazione provocata dal loro impatto con le parti ossee.
Altrettanto rari sono i ritrovamenti di resti scheletrici animali e umani che conservano frammenti litici conficcati: a Umm-el-Tlell, in Siria, è stato rinvenuto un frammento di punta Levallois conficcato nella terza vertebra cervicale di un asino; nella grotta svizzera Le Bichon, frequentata 12mila anni fa, sono venuti alla luce uno scheletro umano e uno scheletro di orso bruno con un frammento di punta di selce conservato in una vertebra cervicale; in Sicilia, nella Grotta di San Teodoro, è stato recuperato un frammento di punta conficcato in una pelvi umana femminile risalente a 14mila anni fa. Evidenze meno dirette della caccia nella preistoria sono fornite dai resti animali conservati nei depositi archeologici: ossa di grandi e piccoli mammiferi, di uccelli e pesci, nella maggior parte dei casi interpretate come resti di pasto. Attraverso gli studi archeozoologici, la fauna cacciata può fornire dati sulle attività svolte negli accampamenti stagionali, sulle ipotetiche strategie di cattura delle prede o sul tipo di ambiente vegetale attorno ai siti entro un raggio di vari chilometri.
Queste ricostruzioni sono rese possibili anche attraverso l’apporto di altre discipline come l’antropologia e l’etnologia e lo studio di altri tipi di reperti (manufatti in pietra, legno e osso). Dall’analisi è quindi possibile determinare le specie animali e il numero minimo di carcasse introdotte nel sito, il sesso e l’età di morte. Vengono ricostruiti quadri più o meno chiari delle popolazioni faunistiche disponibili, addirittura con l’approssimazione sufficiente a stimare la quantità di carne potenziale a disposizione. Viene determinata la stagione di abbattimento delle prede grazie all’analisi al microscopio di sezioni sottili di denti, dello stadio di fusione delle epifisi e della presenza di denti decidui. Attraverso il computo delle varie porzioni dello scheletro, l’archeozoologo riesce infine a determinare se l’animale sia stato trasportato nell’insediamento intero oppure solo dopo essere stato macellato e sporzionato sul luogo di abbattimento al fine di trasportarne solamente le parti pregiate o ricche di carne. Di fondamentale importanza è verificare se e quale preda sia stata utilizzata interamente ed esclusivamente a fini alimentari oppure se da essa siano stati ricavati prodotti d’uso come pellame, corna, palco, denti, porzioni ossee particolari per la produzione di strumenti. Su questi quesiti interviene la tafonomia, una disciplina utile alla ricostruzione delle tecniche e delle modalità di macellazione attraverso l’analisi dello stato di frammentazione delle ossa e delle tracce involontariamente lasciate sulle loro superfici da attrezzi in pietra scheggiata.

Alice Massarenti
Nata a Mirandola, in provincia di Modena, classe ’84, si è laureata in Archeologia e storia dell’arte del vicino oriente antico e in Quaternario, Preistoria e Archeologia con una tesi in Evoluzione degli insiemi faunistici del Quaternario. Ha un’ossessione per i fossili e una famiglia che importuna costantemente con i racconti delle sue ricerche sul campo.