Chi segue con interesse i festival cinematografici internazionali ha potuto constatare come negli ultimi anni la presenza cinese si sia fortemente incrementata. Una vera e propria ondata di giovani autori, formatisi prevalentemente fuori dalla Cina, ha infatti cominciato a produrre il proprio cinema in autonomia a partire dalla fine degli anni Duemila. Un vero e proprio ricambio generazionale, facilitato certo dalle opportunità di studio all’estero, ma ostacolato dalle maglie strette della censura cinese, che vieta a molti di questi film la circolazione commerciale in patria. Per questo motivo, se si vuole prenderne visione, non si può fare altro che cercare nelle manifestazioni europee queste opere, che costituiscono un valido strumento per comprendere un Paese complesso, in rapida trasformazione, stretto nella morsa fatale dell’opprimente Partito Comunista Cinese.
Ma quando nasce un cinema indipendente in Cina? Sintetizzando, quando muore Mao Zedong e il nuovo governo decide di aprire al mondo il proprio sistema economico. Infatti, nel 1978 riapre l’Accademia di Regia di Pechino e in breve si diploma un gruppo di aspiranti registi che formeranno la famigerata Quinta Generazione. Ad aprire le danze è Terra gialla (1983) di Chen Kaige, con la fotografia di Zhang Yimou. In seguito, nel triennio 1992-94, film come Addio mia concubina e Vivere! portano sullo schermo le fasi più contraddittorie della Rivoluzione culturale e segnano un inaspettato “ritorno alla storia” da parte di una generazione poco incline ad affrontare direttamente temi sensibili. Questi autori hanno estetiche e modalità produttive diverse, e l’unico filo comune è l’analoga sfida lanciata alle autorità per opera, non a caso, di personalità che vantano già una fama internazionale e che possono osare film dai tagli revisionisti rispetto all’ortodossia storiografica. Tuttavia, ne usciranno tutti più o meno sconfitti, chi ammonito dal governo e chi abbattuto dall’accoglienza di critica e pubblico.
A riaprire la sfida sarà la Sesta Generazione, la prima davvero indipendente, ovvero che non rispetta la tradizionale procedura produttiva. Autori implicitamente associati allo studente di Piazza Tiananmen opposto ai carri armati, per prossimità anagrafiche, di “milieu” sociale, di determinazione. Il primo a lavorare fuori dal sistema pubblico è Zhang Yuan, diplomato all’Accademia di Pechino nel 1989. Esordio con Mama (1991). Ben presto anche altri realizzano fuori dal circuito ufficiale. Si mescolano stilemi di fiction con modalità del documentario per raccontare realtà marginali e sentimenti comuni ma nascosti, piccoli drammi familiari, comunità, fenomeni culturali e sociali. E nasce un movimento che finalmente utilizza il documentario non come strumento della propaganda. Autori giovani, cittadini, colti e impegnati. Ma mainstream e indipendente non sono impermeabili.
Questa volta è indubbia l’omogeneità tematica. Possiamo, infatti, individuare alcuni cerchi concentrici che partono da un unico centro gravitazionale rappresentato dall’occhio del regista. Attorno a lui, prima di tutto, ruotano artisti, musicisti e intellettuali, protagonisti privilegiati perché alter-ego dei nostri giovani autori per la medesima precarietà esistenziale e professionale. Un secondo cerchio vedrebbe altre figure socialmente marginali come anziani, malati di mente, disabili, alcolizzati, prostitute. Si riverberano le stesse dinamiche di esclusione e invisibilità presenti nell’ambiente artistico. Un terzo cerchio avrebbe, invece, a che fare con la non-rappresentazione dei fatti di piazza Tiananmen, di cui percepiamo le tracce indirette nei luoghi spogli, nei volti segnati di alcuni personaggi, nel vuoto sentimentale. Insomma, si percepisce un persistente senso di mancanza.
Si tratta poi di una generazione urbana proprio per la raffigurazione del contesto metropolitano, attraversato com’è da questi moti di deriva. Non più luoghi dalla geografia chiara o sacche di identità resistenti al cambiamento, ma un movimento implosivo, che si alimenta negli spazi angusti o disadorni di palazzi e vicoli dove esplodono finestre e grate a occludere sguardi, angolazioni, prospettive. La rappresentazione mira a moltiplicare all’infinito il senso di alienazione di chi ci abita o di chi vi si aggira per caso, come senza una meta. In questa stagione spicca Ning Ying, cineasta anagraficamente ascritta alla Quinta Generazione ma molto più vicina alla sensibilità della Sesta, la quale grazie a una trilogia dedicata a Pechino traccia con una lucidità impressionante gli spazi di superamento dell’estetica autoreferenziale dei colleghi più giovani. Si assiste a una progressiva estensione dell’abbraccio raffigurativo: un parco con gli anziani musicisti, un quartiere residenziale con un poliziotto dai compiti assurdi, la città senza più confini riconoscibili attraversata da un tassista dalle relazioni sfuggenti.
Autore-ponte fra questi e i registi contemporanei è Jia Zhang-ke, anagraficamente appartenente alla Sesta ma che ha preferito studiare prima letteratura e pittura, finendo così col diplomarsi in cinema solamente nel 1997. Esordisce nello stesso anno con lo straordinario Xiao Wu, storia di un borseggiatore che si innamora di una prostituta che non lo ricambia in una cittadina di provincia. Bisogna poi ricordare che a fine millennio si parla già di “dGeneration”, ovvero di autori che lavorano principalmente con la tecnologia digitale. Dall’individualismo un po’ narcisista dei coetanei, si passa quindi a un cinema dell’isolamento che tiene però sullo sfondo un Paese in continuo mutamento, le contraddizioni di una società che costruendo sempre il nuovo sul vecchio non mantiene memoria di ciò che lascia indietro. Il cinema di Jia riflette quindi sulla persistenza frammentaria del passato, a livello fisico ma anche retorico. Mescola i tempi del documentario d’osservazione con le pratiche del pedinamento neorealistico, in un sentire che non disdegna l’approccio metaforico e simbolico al reale. Fondamentale summa di questa poetica è Still Life, Leone d’Oro alla Mostra di Venezia nel 2006, opera che segna indelebilmente l’immaginario dei nuovi esordienti, indicando un possibile percorso.
Infatti, i registi dell’attuale panorama indipendente si sono formati negli anni in cui Jia produceva i suoi capolavori e spesso hanno potuto vederli all’estero, nelle accademie o nei festival. Il tono comune di questo cinema è la necessità di denunciare un immaginario sogno collettivo su cui si infrange il dramma individuale, constatando come le perdite della folle corsa al futuro siano soprattutto umane. Un elemento molto frequente è il ritorno alla campagna, raffigurata sì come luogo ameno di resistenza al cambiamento come era stato negli anni Ottanta, ma anche come dimenticata vittima del mutamento, con anziani e bambini abbandonati vicino a campi che nessuno può lavorare perché spesso di proprietà di privati che intendono fare della speculazione edilizia, costruendovi gigantesche città-fantasma. Gli emarginati si cercano quindi subito fuori dalle metropoli, nelle periferie, nelle discariche dove molte persone finiscono a raccogliere plastica per il riciclaggio senza mai scrivere a casa di quell’umiliante lavoro. Ma anche fra i giovani imprenditori self-made incapaci di sostenere il peso di uno sviluppo ancora troppo ambiguo, conteso tra totalitarismo e crescita economica.

Alessandro Amato
Nato a Milano, conclude gli studi a Torino, dove continua a lavorare nell'ambito critico e festivaliero. Collabora con "A.I.A.C.E." e il magazine "Sentieri Selvaggi". Dirige rassegne di cortometraggi e cura eventi per la valorizzazione del cinema italiano. Quando capita è anche autore di sceneggiature per la casa di produzione indipendente "Ordinary Frames", di cui è co-fondatore.