LetteraturaPrimo PianoLe pene dell’amore non corrisposto al centro di un’elegia ovidiana

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Ovidio, poeta incredibilmente versatile e accattivante, autore di elegie molto originali e percorse dalla forza ironica del suo genio, rielabora tematiche ben rodate dai poeti ellenistici e augustei, ricontestualizzandole e vivificandole in quadri enormemente interessanti. A esemplificare questa operazione, componente costante della produzione ovidiana, risulta di notevole interesse la sesta elegia del primo libro degli Amores. Si tratta di un componimento molto lungo e complesso, che si inserisce nella categoria dei “paraclausithyra”, ossia i lamenti degli amanti ignorati davanti alla porta chiusa della propria innamorata.

La tematica vanta origini antichissime: Alceo, in tal senso, può essere considerato inventore del motivo, che avrà un successo grandioso nella letteratura successiva. Il “paraclausithyron”, infatti, si ritrova maggiormente in ambito comico e presso i poeti alessandrini, che lo rendono un motivo ineludibile nell’ambito della trattazione erotica. Nell’età ellenistica, ovviamente, il “topos” viene traslato a Roma, dove si insinua nel teatro plautino e si guadagna di diritto l’accesso al grande pubblico. Nel I secolo a.C., il motivo viene ripreso fuggevolmente da Lucrezio, ma viene largamente sviluppato da Catullo, Orazio e Tibullo, per giungere a Properzio e Ovidio.

In tutti i componimenti, fatte salve le debite differenze legate alle scelte stilistiche e contenutistiche degli autori, il tema prevede un repertorio fisso di personaggi e situazioni. Tanto per cominciare, il poeta dilaniato da sentimenti contrastanti irrompe nella quiete notturna con pianti, preghiere e minacce, affinché la sua donna decida di accoglierlo nel talamo per dar inizio ai convegni amorosi. L’amante volutamente escluso cerca di vincere la “duritia” della “puella” con suppliche e blandizie, ma il rifiuto categorico viene imposto dall’inamovibilità della porta, che rappresenta un ostacolo insormontabile. Properzio, con un abile espediente narrativo, renderà la porta protagonista del carme e, attraverso una straordinaria personificazione, le affiderà il compito di lamentarsi dei tanti amanti prostrati sul suo uscio e della corruzione dei costumi della sua padrona, un tempo lodata per la sua pudicizia.

Ovidio, nella sesta elegia del primo libro degli Amores, costruisce un “paraclausithyron” innovativo e particolare, contrapponendo all’amante rifiutato l’intransigenza di un “custos” fin troppo zelante. Il “custos” era uno schiavo, a cui era affidato il compito di fare da guardia all’ingresso dell’abitazione. Per via della sua funzione, egli era incatenato e posto a guardia, soprattutto di notte. Ovidio, al ritorno da un banchetto, annebbiato dai fumi del vino e particolarmente eccitato dall’idea di poter passare una notte d’amore con la sua donna, si avvicina all’uscio, implorando il portinaio di farlo entrare. Il poeta si presenta eccessivamente dimagrito a causa dei patimenti subiti per la sua fanciulla. L’amante elegiaco, del resto, non conosce che gioie sporadiche e fugaci, come testimoniato dagli esigui esempi di due elegie di Properzio (2.14 e 2.15) e dalla quinta elegia del primo libro degli Amores. La sofferenza, dunque, connota endemicamente il genere e gli amanti elegiaci. Il povero Ovidio cerca in ogni modo di persuadere lo schiavo a concedergli l’accesso alla casa e, per farlo, ricorre a promesse di doni e di libertà. A un certo punto, l’amante rivendica addirittura il credito di favori passati e ne pretende la restituzione. In un monologo quasi delirante e che ben traspone la lunghezza della veglia notturna, Ovidio si rivolge allo schiavo come se si trovasse al cospetto di una divinità, invocando la tanto agognata clemenza. Ancora ignorato, il poeta ricorre alla descrizione della sua condizione di amante disgraziato, reso impavido da Cupido e da Venere, ma desideroso di pace e di quiete. Sottolinea la sua totale incapacità di compiere del male e descrive il suo innocuo armamentario, nel quale spicca una ghirlanda di fiori, simbolo delle riunioni conviviali e della fase più florida della giovinezza.

L’intera elegia è scandita da un abile ritornello («Tempora noctis eunt; excute poste seram»), che divide il componimento in sezioni tematicamente ben individuabili e inframmezza il lungo procedere delle argomentazioni del protagonista. Man mano che l’elegia si avvia verso la conclusione, il tono diviene sempre più spazientito e, al contempo, rassegnato. Il “custos”, con crudele indifferenza, non intende cedere a preghiere e minacce. Nonostante la situazione angosciosa e prostrante, Ovidio tratta in maniera ironica e distaccata un tema largamente adoperato dai suoi predecessori, attraverso le sue brillanti innovazioni imposte al genere. Particolarmente intensa e riflessiva risulta essere la conclusione dell’elegia, laddove, all’audacia iniziale, fa da contraltare un profondo rammarico e la consapevolezza di aver sprecato in una vana attesa tutta la notte. A testimonianza della sua disfatta, getta sull’uscio la ghirlanda di fiori, sperando che la sua amata possa vederla l’indomani e pentirsi del suo comportamento freddo e insensibile.

Anita Malagrinò Mustica

Nata a Venezia, ma costantemente in viaggio per passione e lavoro, studia Lettere Classiche a Bari. Sognando di poter dedicare la sua vita alla ricerca e all’insegnamento, ha collaborato e collabora con varie realtà editoriali, scrivendo per diverse riviste di divulgazione scientifica e culturale. Appassionata di teatro e di poesia, porta avanti numerosi progetti performativi che uniscono i due ambiti.