Nel 2005 è uscito nelle sale uno dei capolavori della filmografia animata, con la visionaria regia di Tim Burton, insigne quest’anno al Festival del Cinema di Roma del Premio alla carriera. Stiamo parlando di La sposa cadavere (Corpse Bride), la triste e malinconica vicenda di una fanciulla assassinata poco prima delle sue nozze e per questo rimasta in un limbo eterno, in attesa del suo sposo. La storia è ambientata nell’Ottocento in un villaggio olandese e le scene, lugubri e tetre, sono straordinariamente collocate in un tempo non tempo, colmo di particolari favolistici e stravaganti, macabri e grotteschi: la morte qui “si gioca” e, paradossalmente, “si vive”. Quello dei morti è un luogo parallelo ma incredibilmente vicino a quello dei vivi: il confine tra i due mondi si assottiglia man mano che la trama si sviluppa, fino a scomparire.
La vicenda del film animato affonda le proprie radici in epoche passate ed è un misto di suggestioni di vari secoli e di varie culture. L’ispirazione più diretta, stando a quanto sostenuto dal regista, è un racconto ebraico intitolato Il dito, contenuto nel volume Shivhei ha-Ari scritto dal rabbino Isaac ben Solomon Luria, vissuto nel XVI secolo. La trama del racconto è quasi identica all’adattamento cinematografico: lo sposo recita per scherzo i suoi voti nuziali e infila l’anello al dito della fanciulla cadavere credendo fosse un ramoscello secco. Allora dal terreno fuoriesce una mano e poi tutto il corpo avvolto in un sudario. Degli occhi incastonati in un teschio fissano il ragazzo e dalla bocca escono le parole: «Mio marito». Sopraffatto dall’orrore, l’uomo porta la sposa da un rabbino che annulla il loro matrimonio sulla base del fatto che i morti non possono pretendere nulla dai vivi. Il cadavere allora si disintegra, riducendosi a una pila di ossa.
Il motivo per il quale il rabbino Luria compose un racconto di questo genere, può essere correlato al fatto che egli completò la dottrina della reincarnazione, contenuta nella Cabala, con la cosiddetta “teoria del riempimento”: se un’anima ha tralasciato un obbligo in vita, allora è costretta a tornare sulla terra per legarsi a una persona in vita: così può unirsi a un corpo per ovviare all’oblio nel quale è sprofondata. Allo stesso modo, la sposa nella storia – avendo lasciato in sospeso un particolare avvenimento della propria vita – deve essere liberata attraverso un’azione proveniente dal regno dei vivi. Come l’ebreo errante – o, per trattarla in termini “romantici”, l’olandese volante – anche la sposa di questa leggenda deve essere liberata da un vincolo che la tiene costantemente in un limbo tra i due mondi. Non a caso, sebbene sia sepolta, la sua volontà e anche il suo stesso corpo protendono verso l’alto: verso il regno dei vivi.
Nonostante il film di Burton abbia qui le proprie radici, l’adattamento russo del XIX secolo sembra avere una più diretta correlazione con la trama: una donna assassinata nel giorno del suo matrimonio viene sepolta vestita da sposa. Un uomo che sta per sposarsi mette per scherzo la fede a un ramo che esce dalla terra – che è in realtà il dito del cadavere – e la “sposa” emerge dicendo di essere sua moglie. Solo grazie all’intervento dell’altra sposa, che le promette di crescere i futuri figli in suo onore, la defunta si convince a tornare nel regno dei morti.
Una tematica simile è presente anche in La Vénus d’Ille, racconto del 1835 – decisamente più macabro – dello scrittore francese Prosper Mérimée, nel quale lo sposo – il giovane Alphonse – mette l’anello nuziale della moglie al dito della statua di una Venere. Dopo questo episodio, il narratore nella notte sente rumori di passi salire per le scale e al mattino ode sempre lo stesso suono, ma stavolta di passi che scendono i gradini. Poi delle urla: Alphonse è morto. La moglie racconta che la statua ha passato tutta la notte nel letto con loro, stringendolo in un forte abbraccio, e poi è tornata sul suo piedistallo. Anche il padre di Alphonse morirà. Sua moglie farà fondere la statua per farne una campana per la chiesa locale. Da quando quella campana è stata posta nel campanile, il gelo ha per due volte distrutto il raccolto.
In ambito tedesco, nel volume Gespensterbuch (Libro dei fantasmi), redatto nel 1810 da Friedrich August Schulze, è presente un racconto intitolato Die Totenbraut (La sposa cadavere), poi inserito nell’antologia di racconti dell’orrore Fantasmagoriana.
Tutte queste storie, legate tra loro da un filo rosso impossibile da ignorare, sono accomunate dalla predominanza posta sul labile confine tra quei due mondi che da sempre si eludono, ma che inevitabilmente si cercano.

Lucia Cambria
Siciliana, laureata in Lingue e letterature straniere e in Lingue moderne, letterature e traduzione. Particolare predilezione per la poesia romantica inglese e per la comparatistica. Traduttrice di prosa e versi, nel 2020 ha trasposto in italiano per Arbor Sapientiae il romanzo "L’ultimo uomo" di Mary Shelley.