LetteraturaPrimo PianoLe fiabe norvegesi

Ludovica D'Erasmo25 Giugno 2019
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È la fiaba per antonomasia quella norvegese, fatta di lunghi giorni per un sole lentissimo a tramontare. Boschi immensi, fattorie e contadini, personaggi del folklore locale, un’attenzione particolare agli animali e ai lavori agricoli, in una forma  cantilenata che gioca con i suoni e le parole. Caratteristiche queste che «qualificano la fiaba norvegese come la più bella del mondo», aveva detto Jacob Grimm. Racconti liberi e pieni di fantasia che si sono tramandati di bocca in bocca per tempi immemorabili.

Un bagaglio di vita quotidiana e di relazioni umane che si esprime in un linguaggio fantastico, ricco di simboli. Formule introduttive che conducono nella magia di un mondo incantato – «c’era una volta, c’ era una volta un re, c’era una volta un’epoca in cui tutte le cose potevano parlare» – e formule conclusive che riportano  alla realtà  il pubblico di ascoltatori.  Ma non finisce qui:  la fiaba norvegese diletta i suoi lettori con suoni e parole che si ripetono nel corso della storia come puntelli di memoria (è il caso del celebre «Snip snap snute sa er eventyret ute») o come piccoli riassunti posti alla fine di ogni vicenda principale («Il macinino è ancora lì nel mare e continua a macinare, è per questo che il mare è salato»).

A muoversi  tra le fitte maglie di questa  rete di parole vi  è un numero limitato di personaggi schematizzati, che assumono il valore di modelli. Il più  famoso tra tutti è Askeladden ossia Ceneraccio. Questo si presenta all’inizio della storia come il classico buono a nulla, portando con sé capacità nascoste che rivelerà soltanto al momento opportuno. La trama è spesso semplificata, le descrizioni sono corte e ripetono quasi ossessivamente il numero tre: tre fratelli, tre figli, tre re, tre giorni consecutivi; anche i fatti e i protagonisti vengono menzionati generalmente tre volte e lo scioglimento dell’intreccio avviene sempre come per magia alla terza replica. Il lieto fine suggella la conclusione di ogni storia, i buoni saranno ricompensati e i cattivi puniti. Un inno alla giustizia, resa sempre con poesia.


Il repertorio di queste fiabe è tutto intriso di “norvegesità”, così la critica definisce i racconti della tradizione norvegese, i quali si dividono in tre grandi gruppi tematici: le fiabe con gli animali (che hanno come protagonisti animali domestici e bestie selvagge, sono tutti dotati di parola e si comportano come gli uomini); le fiabe sovrannaturali (le quali  presentano una serie di creature che combattono draghi, troll e streghe, descrivono certi fenomeni prodigiosi come gli stivali delle sette leghe, mantelli invisibili, tovaglie che si stendono e si riempiono di mille vivande, montagne di cristallo, castelli d’oro e di un gran numero di cose fantastiche e meravigliose); le fiabe scherzose (in cui troviamo situazioni bizzarre, che tendono al comico o al grottesco, parodiando alcuni lati della realtà, fino a schernire gli stereotipi dell’immaginario collettivo). Un esempio tra tutti è la fiaba di Pollicino, un bambino alto circa un pollice o poco più, che per le convenzioni del tempo deve accettare il futuro che la sua famiglia ha programmato per lui. Andrà così in sposo a una donna tanto più grassa e grossa da non riuscire più a trovare il suo piccolo marito a una cena seduti a tavola.


Umorismo, senso del giusto, fantasia e immaginazione, mondi incantati e mostri da battere. È questo il ricco bagaglio che scalda gli inverni della lontana e tanto fredda Norvegia, un repertorio da leggere ai più piccoli, per mettere in moto la loro fantasia, tenendoli ancorati alla tradizione di un Paese dalle lunghe stagioni. Sono queste le fiabe da conservare a porta socchiusa, nella libreria di una stanza, da leggere e rileggere per consolarsi, sorridere, condividere e perché no, tornare bambini.

Ludovica D'Erasmo

Fin da bambina coltiva la passione per la scrittura. I giochi di parole e le rime catturano la sua attenzione. Oggi studia Lettere moderne alla Sapienza e sulla scia di filosofi, scrittori e poeti realizza quello che, da sempre, è il suo grande sogno: scrivere un libro. Da tutto questo nasce "Rimasi". La sua scuola migliore, però, rimane il mondo campestre.