«Rosa riso d’Amor, del Ciel fattura,
Rosa del sangue mio fatta vermiglia,
pregio del mondo, e fregio di Natura,
de la Terra e del Sol vergine figlia,
d’ogni Ninfa e Pastor delizia e cura,
onor de l’odorifera famiglia,
tu tien d’ogni beltà le palme prime,
sovra il vulgo de’ fior Donna sublime»
Esiste forse un elogio ancor più vigoroso di quello dedicato alla rosa di Giovan Battista Marino? L’incontro tra Venere e Adone sta già per avvenire quando il narratore interrompe l’azione per rivolgere la sua attenzione proprio alla rosa. Siamo nell’Adone, lo sterminato poema che tratta – in più di 40.000 versi – la favola mitologica degli amori tra Venere e Adone, narrata già da Ovidio nelle Metamorfosi. L’opera sarà identificata con il Barocco e interpretata come il simbolo della corruzione morale, tant’è che sarà condannata dall’autorità ecclesiastica nel 1627 e inserita nell’Indice dei Libri proibiti, ma il successo tuttavia riscosso è anche il frutto del tempismo con cui il Marino seppe cogliere le esigenze di novità e di fondazione di un nuovo orine, di una nuova sensibilità; egli, infatti, è il cantore del mondo «del lusso e della lussuria», di una civiltà che trova la sua manifestazione nel godimento raffinato e nel piacere. Un approccio eversivo che non poté non essere colto dalla Chiesa, specie se paragonato al capolavoro letterario per eccellenza della cristianità controriformistica come la Gerusalemme Liberata.
Caratteristica dominante – e giustificata dal bisogno tipico della poesia barocca – è l’infinita varietà di episodi secondari, degli innumerevoli inserti descrittivi – elementi congiunti dalla voce del poeta – e in cui l’unica forma di azione possibile è il godimento delle cose e degli oggetti. Esempio di letteratura al servizio della sensazione, la realtà sembra esistere solo per essere colta attraverso i sensi. In questa fantasmagorica varietà di immagini e di situazioni, la vicenda di Venere e di Adone – che culmina nella morte e nella trasformazione di quest’ultimo in fiore – diventa quasi emblema della possibilità, da parte dell’uomo, di sottrarsi al tempo che passa e invito a indugiare sulle cose, così come il poeta vi si ostina trasformandole in immagini e suoni, resi gradevoli attraverso il gioco delle metafore e delle figure retoriche. Non che l’amore di Venere e Adone passi in secondo piano, anzi la portata di quell’evento è tale da dover essere supportato da un’immagine altrettanto possente: la vicenda che vede protagonisti la donna e l’uomo più belli, infatti, non può non essere accompagnata dalla rappresentazione del più bello dei fiori. Unico resta, su un piano di parità, l’altro signore della vita e dell’universo: il sole.
«Non superbisca ambizioso il sole
Di trionfar fra l minori stelle,
ch’ancor tu fra i ligustri e le viole
scopri le pompe tue superbe e belle.
Tu sei con tue bellezze uniche e sole
Splendor di queste piagge, egli di quelle.
Egli nel cerchio suo, tu nel tuo stelo,
tu Sole in terra, ed egli Rosa in cielo»

Monica Di Martino
Laureata in Lettere e laureanda in Filosofia, insegna Italiano negli Istituti di Istruzione Secondaria. Interessata a tutto ciò che "illumina" la mente, ama dedicarsi a questa "curiosa attività" che è la scrittura. Approda al giornalismo dopo un periodo speso nell'editoria.