La poesia di Juan Ramón Jiménez è «ansia di eternità», volontà suprema di identificarsi con ciò che viene osservato e desiderio di ottenere la libertà che esso possiede. Come uno specchio, il poeta andaluso, premio Nobel per la letteratura nel 1956, riflette il mondo che gli si disvela innanzi, emblema dell’immortalità che all’uomo manca. Nato la vigilia di Natale del 1881, Jiménez trascorse la giovinezza presso un collegio gesuita, dove iniziano le sue prime letture: Lamartine, Byron, Heine tra i suoi prediletti. La sua storia poetica ha inizio nel 1900, quando intraprende il primo viaggio a Madrid. Tornato nel paese natale per la morte del padre, trascorrerà un periodo contrassegnato da una profonda crisi emotiva che lo costringerà a ricoveri in sanatorio. Il 1912 è l’anno in cui incontra Zenobia, la donna che sarebbe poi diventata sua moglie, non prima però di affrontare una serie di battaglie legate al dissenso dei genitori di lei. Zenobia parte con la madre per gli Stati Uniti, nell’autunno del 1915, per andare a trovare il nipotino appena nato, così il poeta la raggiunge nel gennaio del 1916 e i due si sposano nel marzo dello stesso anno, a New York. Il viaggio di ritorno dall’America, a giugno, è stato per il poeta una cesura di grande valenza lirica, parecchio visibile nel gruppo di poesie incluse nel Diario de un poeta recién casado (1917). Qui emerge molto nitidamente l’incontro del poeta con il mare che diviene per lui il simbolo di ciò a cui anela, ovvero l’immortalità, il sempre vivere, quell’«ansia di eternità» alla quale si è accennato:
contemplatore eterno, senza stanchezza
e senza fine, dello spettacolo grandioso ed unico
del sole e delle stelle, mare eterno!
La scrittura del Diario è solitamente fatta coincidere con una seconda fase della poetica di Jiménez, del tutto diversa dalla prima, contraddistinta da un generale pessimismo. La poesia del primo periodo è infatti illuminata da una luce più crepuscolare, imbevuta di una romantica melancolia:
Cuore, a cosa serve mai
tenere gli occhi aperti,
se starà sempre lontana
dal cielo la primavera?
La vita non basta, non è sufficiente a soddisfare l’anelito all’eterno vivere, il quale deve però fare i conti coi limiti dell’umano:
Quant’è difficile fare
per intero tutto, di una vita;
quant’è difficile lasciare
tutto a metà, vita mia!
Il poeta sembra aver trovato, con questo viaggio che diviene più spirituale che fisico, il segreto del divenire immortali; la morte non è esclusa, ma riservata solo a una porzione del proprio io: «la terra è il cammino del corpo, […] / il mare è il cammino dell’anima». Il mare rende immortale l’uomo, perché lo avvicina il più possibile all’idea di immensità che tanto brama: «sembra / che l’anima da sola navighi / sul mare».
L’“epitaffio ideale”, espressione che ricorre spesso nelle raccolte poetiche di Jiménez, diviene allora una celebrazione della morte in quanto proseguimento dell’esistere. Nei precedenti “epitaffi ideali”, la morte è più concreta, tangibile, sebbene trasfigurata. Si veda per esempio Epitafio ideal de un heroe, in cui l’eroe sta innanzi al poeta, e al lettore, «qui putrefatto»; e ancora Epitafio ideal de un corazon parado (Epitaffio ideale di un cuore senza battito) in cui l’immagine del cuore, sebbene presentato come luogo in cui ora vi germogliano roseti, è simbolo di sentimenti ormai obliatisi: «dove se ne andò la fede – dove se ne andò?».
In Epitafio ideal de un marinero Jiménez, invece, delinea in pochi versi una totale identificazione del marinaio col mondo che non ha del tutto lasciato («te ne stai / dappertutto – cielo, mare e terra»). La sua tomba è remota, così come remoto è per il poeta il concetto del morire: «Bisogna cercare, per trovare / la tua tomba, lungo il firmamento».

Lucia Cambria
Siciliana, laureata in Lingue e letterature straniere e in Lingue moderne, letterature e traduzione. Particolare predilezione per la poesia romantica inglese e per la comparatistica. Traduttrice di prosa e versi, nel 2020 ha trasposto in italiano per Arbor Sapientiae il romanzo "L’ultimo uomo" di Mary Shelley.